Dagli anni Ottanta di Satantango (1985, Bompiani 2016) e Melancolia della resistenza (1989, Zandonai 2013, Bompiani 2019), László Krasznahorkai scrive romanzi apocalittici, ambientati in luoghi abitati da poveracci – da tanti Joseph K. o K. in primis, ma anche da tanti straccioni alla Beckett o campioni di mediocrità alla Gogol – è W.G. Sebald, che ormai seguitiamo a citare quasi in automatico in ogni post, ad accordargli un’ampiezza di visione e una costruzione di mondi letterari simile a quella del russo. È stata Susan Sontag a battezzarlo invece “il maestro ungherese dell’Apocalisse”, avendo tra l’altro a cuore il Sátántangó cinematografico del geniale sodale di Krasznahorkai, il regista Béla Tarr… Straordinarie credenziali per un autore rimasto da noi sommerso per decenni, cioè non tradotto in italiano, e che abbiamo conosciuto prima come sceneggiatore: Kárhozat (Dannazione) di Tarr è del 1988, le sette ore di Sátántangó datano al 1989, Werckmeister Hármoniák, tratto da Melancolia, è del 2000.
Kafka, Beckett, Gogol (di quest’ultimo sto spulciando, risvegliato dalla lettura di Krasznahorkai, Le anime morte in un vecchio libretto della BUR scritto piccolissimo con le macchie del tempo sulla copertina grigia e le pagine che si staccano). Questa è comunque la triade di influenze, che compare 99 volte su cento quando si parla dell’ungherese – Krasznahorkai è nato a Gyula, che sta al confine con la Romania, ma nel nuovo romanzo Herscht 07769 (2021, uscito ora per Bompiani) sconfina nell’ex Germania dell’Est e giova certo conoscerne la posizione sulla cartina di “quella” Europa. Di nuovo infatti Krasznahorkai – consumata la puntata nata dalle residenze in Asia con Seiobo è discesa quaggiù (2008, Bompiani 2021) – mescola minacce di bibliche catastrofi con lo sfascio storico dei Paesi post comunisti, e il suolo concreto dove si svolge la storia, lasciata alle distopie l’Ungheria rurale, sembra oggi per lui più importante del consueto.
Dunque. Florian Herchst, giovane gigante dagli occhi azzurri, è l’idiota del villaggio di Kana, in Alta Turingia, e scrive ogni giorno una lettera alla cancelliera Angela Merkel, per avvertirla di un grave pericolo. Che la realtà scompaia, da un momento all’altro, per uno squilibrio improvviso tra materia e antimateria… Il timore di Florian, ingenuo orfano, già sotto tutela dell’irascibile Boss, capo di un plotone di sgangherati neo nazisti, è sorto da malintesi insegnamenti di fisica quantistica. Glieli ha impartiti il signor Kohler, professore in pensione e meteorologo dilettante, che un bel giorno scompare…
Florian scrive, prova a scrivere, straccia e riscrive, spedendo e rispedendo i suoi sconclusionati appelli a Merkel. Si direbbe quasi che il giovane vigili da una torre, in quanto abita al settimo piano, con ascensore rotto, della Hochhaus della dismessa Fabbrica di Porcellana, un tempo abitata da manodopera vietnamita. Florian veglia su una cittadina di minuta borghesia, dove covano forti desideri di revanche: i nazisti del Boss sognano il Quarto Reich, ma in molti a Kana condividono l’idea di una Germania svenduta al capitalismo internazionale senza che si sia preservato l’uomo tedesco (vi viene in mente qualcosa?)… Per questo, J. S. Bach è l’idolo locale, nonché il feticcio improbabile del Boss, e sale l’indignazione quando la memoria del musicista viene presa di mira da un ignoto graffitista: con la scritta WIR e il disegno di una testa di lupo qualcuno insozza i luoghi bachiani, a partire dalla Bachaus di Eisenach e dal Mulino Bach. Boss e il suo protetto Florian, addetti alle pulizie, sono incaricati di lavar via i graffiti. Ah già, a proposito, in Turingia sono apparsi all’improvviso i lupi e sono piuttosto pericolosi…
Stop. È un personaggio cardine in Krasznahorkai l’innocente o l’ingenuo, il poveraccio o il freak che vede più di noi normali, con teorie in apparenza strampalate sul nostro misero mondo. Può essere accomunato a un prototipo beckettiano – il pezzente che però si è stancato di aspettare Godot e si mette in marcia lui stesso – il Florian di Herchst 07769 il quale finisce col percepire confusamente che la risposta alle domande del suo essere e dell’essere del tutto si riassume nelle partiture di Bach.
Si accostano a Herscht nella memoria, scorrendo all’indietro i titoli dell’ungherese, altri improbabili portatori di saggezza, come il fragile e poetico sognatore Valuskala di Melancolia, celebre per la sua lezione di cosmologia – tradotta al cinema da Tarr nella scena iniziale di Werckmeister Hármoniák – o come Korin, l’archivista di Guerra e guerra (1999, Bompiani 2020), gravato dall’“enorme fardello della futilità umana”, e può far la sua figura nel consesso anche un nobile piuttosto atipico, l’aristocratico parente di Myshkin de Il ritorno del barone Wenckheim. Herscht si rivelerà portatore di una saggezza terribile.
Krasznahorkai scarta e spariglia. Chiusa una monumentale quadrilogia, nell’incursione in terra di Germania si apre a un’attualità palese, scoperta, esibita: in queste pagine, si parla di complotti, di attentato a una nazione, e si paventano nuove pandemie che affiancano la paura per l’attacco dei lupi e per sanguinosi attentati.
Visivo e ipnotico per vocazione, abituato a lavorare su elaborati e interminabili piani sequenza, qui l’ungherese non stacca mai la penna per andare a capo ma, congiungendo ogni scena all’altra in una sorta di scorrevole girotondo di situazioni e di personaggi, viene come non mai incontro al lettore; anche se il girotondo di cinquecento pagine senza un punto si rivela una gabbia in cui si resta imprigionati e in teoria impediti a staccare – dalla realtà di quello che è raccontato? Oppure non ne usciremo perché Krasznhaorkai ha in limpida e serafica semplicità voluto indirizzare il suo estro verso un finale, se non verso una risoluzione, che rivaleggia con un suspenser? Forse non è un caso che, tra i suoi continui e diversi tentativi di “avvicinarsi alla realtà con la scrittura”, sia comparso in inglese nel 2021 (il copyright è però del 2016) un breve chase thriller multimediale in 19 frasi, illustrato da Max Neumann e sonorizzato dal jazzista Szilveszter Miklós, dal titolo Chasing Homer (New Directions).
Intanto, rileggiamo per un attimo le lettere di Herchst e aggiungiamo un altro argomento che le rende significative. È quasi un topos, presente in venerati maestri – l’ho appena ritrovato ne La fornace di Thomas Bernhard riedita da Adelphi, Bernhard cui Krasznahorkai si imparenta non stilisticamente ma, come dichiarato, in quanto perdente – e appena ieri in Guerra e guerra, la difficoltà dei personaggi nell’approntare o divulgare documenti o scritture definitive, filosofiche o semplicemente utili a sfuggire a una catastrofe. Questo impiccio nella comunicazione, che può divenire il filo rosso di una storia, è forse un ammicco alla sfida di trattare la realtà attraverso la maestà decaduta del romanzo – ed è esibito quasi con civetteria da scrittori che hanno più dubbi che certezze e che, come direbbe Cioran, lasciano le certezze agli imbecilli per aprire ogni giorno “finestre sul nulla”. La risposta della Merkel rimarrà lettera morta.
Grazie per la maratona alla traduttrice Dóra Várnai.
Nella foto grande, László Krasznahorkai nel 1990 (credit: Krasznahorkai _László,_by Lenke Szilágyi is licensed under CC BY-SA 3.0)