Triangle of Sadness è una black comedy del regista svedese Ruben Östlund (classe 1976) al debutto con un film girato in inglese: e bene, c’è chi lo venera come un geniale e bizzarro maestro, chi invece lo boccia come un astuto spacciatore di favolacce – le sue sono comunque storie brillanti e irriverenti nei confronti delle danarose società occidentali, che producono ridicole riserve indiane per ricchi, minacciate dalla miseria del mondo. O dalla nostra insipienza: in Forza maggiore (2014) bastava l’ombra lontana di una valanga per distruggere, a poco a poco, la sicurezza di un uomo e di una famiglia.
Ma allora eravamo agli albori della fama di Östlund. Dal 27 ottobre, dopo un passaggio romano, è in sala Triangle of Sadness, che permette a tutti di giudicare se sono meritati gli applausi o i mugugni per la Palma d’Oro di Cannes 2021. Lo svedese l’aveva già vinta con The Square (2017), mettendo tra l’altro alla berlina il milieu dell’arte contemporanea. Ora, invece, parte dalla enclave della moda…
Triangle of Sadness è una satira a tutto campo su ruoli sociali e stereotipi di genere, comprese le vetuste divisioni per classi marxiane – molto sensate pur se riesumate da un gaglioffo ubriaco, questo per dire. Östlund sfotte senza pietà la nostra molto loca vita piccolo, medio e alto borghese, che si riduce presto in frantumi sotto l’occhio finto impassibile del regista, che gira dopo aver studiato per bene il surrealismo sociale dell’ultimo Buñuel, il clima di minaccia di un certo Haneke e, forse durante la ricreazione, un po’ di Monthy Python.
Divisione in capitoli: il primo, ci presenta due fidanzati che fanno i modelli, Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean), ai ferri corti, complice un’interminabile discussione un po’ pezzente e un po’ sociologica su chi tra maschio e femmina deve pagare un conto al ristorante; il secondo, li segue in una crociera di iper lusso, dove i due si mischiano a un’umanità varia e inquietante, nella cui descrizione si esalta il flair per il grottesco del regista svedese. A bordo, si distinguono un vero “venditore di merda” arricchitosi nell’Est post comunista e la coppia di adorabili vecchietti che commerciano in bombe a mano, o la dama francese paralizzata che pronuncia come un pappagallo sempre la stessa frase… Il capitano, poi, un debosciato e irresistibile Woody Harrelson, snobba le crudeli regole del protocollo – sta chiuso ubriaco in cabina – mentre il personale di bordo è ridotto alla schiavitù del sorriso di fronte a qualsiasi soperchieria dei turisti. Finché una tempesta – la parte più sfrenata e godibile del film – rimescola tutte le carte, pur nel rispetto dell’inossidabile fil rouge: il vil denaro, i soldi, i dané, si direbbe a Milano, che dividono in compartimenti stagni (oppure no?) il mogul in crociera e il filippino in sala macchine. Attenti, però, e qui non spoilero nulla, al terzo capitolo del film – e peccato che sia il più prevedibile e a tratti schematico, quasi una parabola che ricorda Parasite e persino il nostro vecchio Roma Bene oltre alla solita Wertmüller.
Triangle of Sadness ovvero il triangolo della tristezza. Ha spiegato Östlund che “…il titolo del film si riferisce a un termine usato nel mondo della bellezza per indicare la ruga in mezzo alle sopracciglia, quella che in svedese chiamiamo ‘la ruga dei guai’: indica che nella tua vita hai dovuto sostenere tante battaglie… Il fatto che il chirurgo estetico tenda ad appianarla col Botox la dice lunga sulla nostra epoca e sulla nostra ossessione per le apparenze”. Come no.