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Allonsanfàn
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La spocchia di Monterossi punito dalla sua stessa tivù

Monterossi. O della rivincita della televisione sulla presunta letteratura che pur dichiarandosi di genere non resiste al fascino di darsi arie di presunta superiorità elevando il suo peana intorno a una trasmissione di facile consumo: genere pomeriggio feriale talmente up-to-date che gli autori fanno ancora conto che a quelle ore grame si trovino in visione casalinghe e pensionati, non le frotte di disoccupati e di smartworker e le truppe di auto esodati oggidì da lavori a 3 euro all’ora.

Si chiama Crazy Love, la trasmissione in questione, che già dal titolo non passerebbe l’esame di un responsabile di rete nazionale e le conseguenti ire sull’ostile anglicismo per il target deputato alla visione nel Bel Paese, autografata dal Monterossi medesimo con risibili crisi di coscienza su quella che una volta si chiamava tivù spazzatura per i boomer che la frequentavano con aria sprezzante se non era il cipiglio trash di chi ci vedeva dentro, per superiorità intellettuale e coscienza d’essere d’altro stampo, la realtà vera del Paese, con sprezzatura mista a indotto sarcasmo (la vetusta presupponenza di una sinistra ottusa che avendo scelto di parlare alla testa invece che alla pancia di quello stesso Paese l’avrebbe consegnato senza onore delle armi al ventennio berlusconiano): l’espressione con palpebra calante e smorfia di compassione che adotta Bentivoglio per tutte le sei puntate per dipingere il suo Monterossi, fuori parte e fuori testo, giustamente che ognuno i personaggi dei libri se li fa su a modo suo, e ci dispiace per gli altri – quelli che assistono con perizia filologica e qui ne troveranno di discrepanze, con nuovi personaggi e arredi d’interni lontani dall’originale – ma comunque stordito oltremodo dal calarsi nelle dicotomia tra contratti principeschi e vita nei boschi da trovare solo una sintesi da vecchio eremita nel Bosco Verticale, tra una Carla Signoris appiattita a decalcomania sul personaggio della conduttrice con i soliti triti vezzi senza fantasia di chi l’applauso sa di prenderlo a prescindere (una Mannoia dell’interpretazione, che interpreta come si dovrebbe interpretare, e quindi annoiando) e una Donatella Finocchiaro che si presta a fare da profumiera in carriera, molto milanese vorrebbe perciò essere, senza bisogno di imbruttirsi non fosse che vorrebbero farla apparire fatale, di servizio agli sceneggiatori che si credono più intelligenti degli spettatori per evadere dalla zuccherosa carrambata, siamo su Amazon non su Rai Uno, che dopo aver aggiunto laddove Robecchi nell’originale evitava, fanno sparire con l’ausilio di uno spilungone dentro una Smart: tanto Monterossi ci credeva poco pure lui, imbroncia solo un po’ di più il labbro inferiore nella mono espressione che per un boomer vorrebbe essere accattivante.

Così la serie libresca fa di tutto per elevare il genere a riflessione, vizio comune a tutti i giallisti che non si contentano d’essere di serie e invece di accanirsi sulla prosopopea dell’ispettore statale prende la strada laterale dell’investigatore per caso per evitare l’ingorgo tutto italiano dove ci sono più giallisti che lettori e ne fa un autore televisivo in ovvia crisi di maturità così da permettere all’Autore che con quel mestiere ha messo su famiglia di dimostrarsi superiore per cilindrata ai colleghi suoi, dell’una e dall’altra sponda, per consapevolezza di entrambi i ruoli e del mondo marcio che ci marcia, sempre non creda, il Robecchi diciamo, che fare satira in televisione meriti un destino diverso dall’indifferenziata (in quanto foglia di fico al limite le concedo l’umido).

Monterossi è una mini serie su Prime Video tratta da Questa non è una canzone d’amore e Di rabbia e di vento, di Alessandro Robecchi (Sellerio)

Se è vero che il portafoglio a destra ha le sue ragioni che il cuore a sinistra non conosce, con un sussulto di coerenza si poteva almeno evitare di finire in tivù, sia pure per via secondaria, il cinema perlomeno sarebbe stato più elegante, a lavare i panni sporchi. Che una volta che finisci in lavatrice non puoi evitare la centrifuga e tutto si contamina se non selezioni il lavaggio corretto: così ogni discorso sulla televisione diventa metatelevisivo e la televisione si prende la sua inevitabile rivincita traducendo nei suoi codici e slavando la realtà e ogni contestazione. E allora sono killer da operetta, zingari da cliché, stagisti di seconda generazione o finto alternativi col codino alto e la nuca rasata (involontariarmente attuali solo per chi frequenta i corridoi dell’editoria multimediale milanese dove il Capitale non capendo un cazzo di contemporaneo è convinto che quello stereotipo gli salvi il culo, e allora via alla selezione sul curriculum di piercing e tattoo, con i fortunati punkabbestia non più all’angolo delle strade del centro ma nei corridoi tra i manager incravattati ormai traslocati tutti in periferia), riedizioni di poliziotti buoni e cattivi sul modello di quelli visti, con zazzera bianca e giacca di pelle in qualche programma di tv (finta) verità, carabinieri non più da barzelletta ma con la sicumera dei mobilieri della Brianza, escort che si lasciano appellare prostitute e fanno le moine (mentre quelle vere sputerebbero in testa alle amministatrici delegate di Segrate), cantanti veri che fanno i rocker finti tipo Damiano e però abitano a City Life come i rapper che nel frattempo sono diventati influencer mentre meditano di entrare in politica coi voti della community, mogli modeste e cagacazzo in case umili ma accoglienti, badanti bulgare convertite senza ragione in governanti bergamasche, il tocco etnico di Paolo Sarpi quando la Milano arcobaleno è a Porta Venezia e infine quello che un milanese non farebbe proprio mai tipo buttare una pistola nel Naviglio a San Cristoforo che poi la trovano i cinesi appena lo mettono in secca.

A dare della parrucchiera alla televisione poi finisci col farti pettinare.

  • Per altri (S)visti di Gabriele Nava, qui.
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