Ed ecco il Flaiano di Renato Minore/Francesca Pansa, anzi Ennio l’alieno (Mondadori) come da titolo – bella allitterazione che richiama alla memoria il famigerato marziano a Roma oppure l’Ennius Flaianus alla latina, nome che ne segnala la temporale alterità, derivato dal lapsus di un traduttore inglese.
La coppia Minore/Pansa riaffronta l’alieno per “schegge, incursioni, rapide zoomate e qualche volo di perlustrazione”. Sceglie larghi temi (il giornalismo, la letteratura, il cinema) e circostanze di vita (l’infanzia abruzzese, il milieu romano di cui Flaiano entra a far parte, il matrimonio con Rosetta, la malattia della figlia Lé-Lé), partendo da un distillato di lettere – sincere, inquiete, nutrite di scontentezza di sé e del mondo.
Flaiano si rivolge all’“intelligente” sodale Orfeo Tamburi o liquida un vanesio e mellifluo Fellini, descrive una Milano percorsa da svizzeri all’eccentrico Wilcock o si accorda ai pessimismi di Ceronetti (“il mio infarto è stato il tentativo… di uscire dalla gabbia che avevo trovato”). Con tutti divide pensieri che si accorciano e riassumono in potenziali aforismi – ah, gli aforismi di Flaiano, così spesso sbandierati dall’italiano medio, qualunquista, e che pure resistono alla potenza tombale del luogo comune oltre che del luogo qualunque; c’è stato, almeno guardandolo dai barricadieri anni Settanta, un ampio uso di Flaiano come zeppa da infilare sotto il tavolino che traballa del salotto borghese, né gli salvava la reputazione averlo saputo nel club elitario di Pannunzio o vederne il pessimismo accostato a quello di Steiner, il mite intellettuale infanticida e suicida de La Dolce Vita. Ma così esco subito storicamente dal seminato, ed è meglio tornare all’oggi.
Il libro di Minore/Pansa prova a chiarire i tre equivoci che imprigionano la memoria dell’alieno Ennio, come lo imprigionarono in vita, fino alla morte a 62 anni nel 1972, riconoscendogli il rango della fama ma espellendolo di fatto dalle storie della letteratura (Asor Rosa docet).
Flaiano scrittore viene messo in ombra da Flaiano/giornalista del Mondo e lì per sempre confuso in quel formidabile consesso di belle anime laiche; viene cancellato da Flaiano/uomo di cinema, per trent’anni soggettista, sceneggiatore e suggeritore del grande schermo italiano; scompare infine sotto la luce abbagliante di Flaiano/autore satirico, ridotto poi proprio per la sua verve a semplice per quanto geniale battutista. Non giova allo scrittore Flaiano neppure il fatto di lavorare, come quasi sempre gli accadde, su committenza, e di non aver rappreso la sua scrittura in romanzo (fanno eccezione Tempo di uccidere e il racconto lungo Melampus): Flaiano ha invece prodotto uno Zibaldone, come sosteneva acutamente Giorgio Manganelli, fatto di uno “scrivere continuo” che qualche volta presentava uno “gnocco”…
È ovvio che gli altri Flaiano esistono e vanno riportati all’unità. In particolare, ho letto con piacere le pagine dedicate al cinema, che per anni è stato il “primo mestiere” dello scrittore, anche nei panni divaganti di critico. Flaiano è di fatto sfuggente, ricordano in molti, e sembra partecipare quasi per caso alle riunioni di lavoro ma poi sa riassumere in una sola battuta il carattere di un personaggio – Suso Cecchi D’Amico dice di aver visto pochissime pagine scritte direttamente da lui…
La poetica di Flaiano è qui assodata: consiste nel comporre “a mosaico” tante storie aperte, suggerendole appena, di modo che sia lo spettatore a completarle. Questo è il Flaiano di Fellini, ma anche quello interessato a documentare l’Italia che cambia, tra pellicole nobili e non, attraverso un diario ideale – a riprova che il diario è forse la forma letteraria più congeniale a questo scrittore in perenne servizio.
Fellini caricaturale e barocco e Flaiano conciso anzi fulmineo, lontanissimo dal “poetico”, convivono per quindici anni, uniti da “l’attenzione e la tolleranza verso le azioni degli uomini e la pietà per il nostro destino” (così lo scrittore a Tullio Kezich). La fine dell’amicizia corona la delusione dell’abruzzese verso un mondo del cinema cambiato che non ha più coraggio e ripete i suoi successi con la carta copiativa – che si senta per una volta come Faulkner o Scott Fitzgerald divorati da Hollywood? Di certo Flaiano vive come una cocente sconfitta (“la mia tomba”) non essere passato dietro la cinepresa con Melampus. Il produttore Carlo Ponti gli chiede troppi compromessi e allora Melampus esce come romanzo breve. Flaiano non lo riconoscerà quando Marco Ferreri ne trarrà La cagna (1972), ironizzando sui “diritti d’autore” che gliene derivano. Lo consolano appena i pellegrinaggi di Oceano Canada.
Ognuno nel libro si cerchi il suo flash, il suo percorso. Magari a cena da Cesaretto, nelle lunghe notti romane, in cui le ore sottratte agli amici servono a scrivere Tempo di uccidere (titolo scartato Il coccodrillo, romanzo approntato in tre mesi su ordine di Leo Longanesi), che gli permette di vincere il Premio Strega nel 1947. Moravia, che doveva partecipare, ce la farà solo cinque anni dopo – Moravia qui visto come il contrario di Flaiano, è il romanziere calcolatore che si presta al cinema con il distacco di chi sa che verrà tradito ma intanto incassa l’assegno. Comunque. Tempo di uccidere viene terminato, per povertà di mezzi, sul retro delle pagine di una sceneggiatura (Fontamara, da Ignazio Silone, mai girata). Dal che si nota già che Flaiano si muove di tendenza su commissione, per indole e non solo per il bisogno di guadagnare, cosa che gli sarà sempre più necessaria in futuro per la grave disabilità della figlia.
Ho parlato del fascino delle antiche notti romane e pesco in libreria una raccolta di scritti postumi di Flaiano, La solitudine del satiro (Rizzoli 1973, Adelphi 1996), che vede raccolti per aperitivo dei Fogli di Via Veneto: a fine anni Cinquanta tutto sembra andato in malora, la via ridotta a un turistico porto di mare per gente che chiacchiera di argomenti “gastro-sessuali”. Le date dei Fogli sono mescolate da una memoria intermittente, ma ciò che Flaiano comunica subito è “malinconia canina”, mentre incontra Cardarelli, che si espone come fosse già il cadavere di se stesso. O quando constata che la morte forse procede in ordine alfabetico, poiché dopo Barilli ha ghermito un frettoloso Brancati (l’appunto è del settembre 1954). Si chiude su Fellini, che finalmente è pronto per il ciak: ha ricostruito a Cinecittà un pezzo della mitica via, quello del Café de Paris, e nel giugno del 1959 lavora, da “gongorista”, al suo personale museo delle cere. Dice Federico: “Forse in un angolo dovevo mettere Cardarelli, come una specie di premonizione in agguato”. “È morto ieri”, risponde Ennio. “Già, hai visto?”.
L’alieno Flaiano di Renato Minore e Francesca Pansa risente di un incontro di quarant’anni fa in una serata di poesia a Villa Borghese, dove si ascoltano i versi di un uomo “ferito a morte, tanto diverso da quello più brillante, cinico, inesauribile affabulatore: la maschera che ancora lo nascondeva”. Per questo ha ampio spazio nel libro un vasto capitolo di dolori famigliari e la citazione del bellissimo e ultimativo poema La spirale tentatively (si legge in Autobiografia del blu di Prussia), dove Flaiano, all’ultima battuta, si mette a nudo senza possibilità di scampo.
I libri Renato Minore e Francesca Pansa, Ennio l’alieno. I giorni di Flaiano (Mondadori). La solitudine del satiro (Rizzoli 1973, Adelphi 1996). Se volete continuare sulla pista diaristica, si può frugare in Soltanto le parole. Lettere di e a Ennio Flaiano (1933-1972), Bompiani 1995, dove si trova un’incredibile raccolta di umori e malumori, che percorrono una vita, e che coinvolgono come comparse una incredibile pattuglia di intelligenze italiane.
Nella foto di apertura, Flaiano con la moglie Rosetta