Marco Bellocchio per chi ha i miei anni è Lou Castel, sorta di angelo ribelle che, in panni piacentini e minato dall’epilessia, aiuta fattivamente la madre cieca a precipitare in un burrone – proprio così, e ciò in un racconto di stampo realistico, e per cui forse due volte simbolico, che noi spettatori seguivamo nascondendo o schiacciando i nostri, di pugni, in tasca (tra l’altro che bel titolo!).
Oppure Marco Bellocchio sta, appena un po’ più tardi, nel corto circuito della lacrima che, percorrendo il viso un po’ invecchiato di Castel, dagli occhi scivola a lambirgli le labbra, così pacificandolo finalmente per un lutto – la perdita del gemello morto suicida -, secondo una giunzione di razionalità e istinto che sarebbe stata applaudita dallo psicoanalista eretico (e in seguito a lungo sceneggiatore bellocchiano) Massimo Fagioli.
Bene. I pugni in tasca (1965) e Gli occhi e la bocca (1982): due film bellissimi su tanti, il secondo dimenticato, sono per me due titoli illuminanti nella lunga ed estenuante routine di ribellione o di spiazzamenti di sé e del pubblico che percorre tanta carriera del cineasta oggi ottuagenario.
In un primo periodo, se è lecito distinguere, cioè quello de I pugni in tasca, compare l’irrequieto Bellocchio sessantottino, capace di sintonizzarsi sull’onda di un cinema civile molto politico, per esempio ne La Cina è vicina e in Matti da slegare, o nel furente Sbatti il mostro in prima pagina; in un secondo tempo, si inaugurano generose – ma forse il termine generoso è inadatto, poiché Bellocchio non è un uomo generoso né tanto meno brillante, semmai è un uomo severo e spettacolarmente spigoloso – si inaugurano, dicevo, pellicole segnate da generose confusioni epocali post marxiste e oltre freudiane aperte su visioni di sabba ed enigmatici bivi, esistenzialismi di ritorno e botte stordenti di inconscio più o meno collettivo… Le quali pellicole (per fortuna?) si piegano e riassumono, nutrendo l’estro civile delle prime, nella decisione, presa in tarda età dal maestro di Bobbio, di ri-raccontare per bene la storia d’Italia, o la storia dell’anima d’Italia, come nel recente e solido Il traditore, dedicato alla figura del pentito di mafia Tommaso Buscetta.
Ecco da che propositi arriva la nuova gioventù dell’ormai vecchio Bellocchio, girata per 5 ore e divisa in due tranche distribuite prima al cinema e poi sul piccolo schermo. Destinatari (conclamati) dell’operazione: i ragazzi, i giovani, chi ai tempi non c’era, oltre a noi tutti, naturalmente.
Ecco da dove arriva il didascalismo straniante e a tratti teatrale di Esterno notte – questo il titolo della maratona dedicata al sequestro Moro – passato nella prestigiosa selezione Cannes Première e prima serie all’attivo del regista piacentino.
La storia del rapimento, già narrata nel 2003 nel film (capolavoro?) Buongiorno, notte, tratto da Il prigioniero della ex brigatista Anna Laura Braghetti, riparte per la tv da un primo piano del mimetico (e gigantesco per dedizione alla parte) Fabrizio Gifuni: è lui lo “statista” allettato che, liberato inaspettatamente dai carcerieri rossi, si dimette con toni degni di un’invettiva pasoliniana dalla Dc che gli sta schierata al capezzale. Andreotti, Cossiga, Zaccagnini…
Questo sogno di Moro libero è il tipico incipit da serie che può di fatto aleggiare su tutti i sei episodi, provocando un’aspettativa, un bagliore di suspense (e di speranza) in una storia dalla fine molto nota, riverberandosi intanto come wishful thinking e giudizio storico sul caso da parte dell’equipe Bellocchio (anche Giovanni Bianconi è del gruppo), nell’eventualità ci fossero dubbi in proposito.
L’onorevole Moro però, più che il padre edipico che ci saremmo aspettati, è qui spesso l’agnello sacrificale di un’Italia tutta sbagliata: un cauto e mite, previdente e occhiuto pater familias sacrificato da una società politica corrotta dal potere e rimpianto dal suo nucleo famigliare – questo invece perfetto ed è un apax nel cinema di Bellocchio – su cui vigila la Noretta di passione e filo di ferro interpretata da Margherita Buy.
Giova dire che le due parti della maratona sono divise tematicamente. La prima è dedicata quasi per intero agli esoterici magheggi di chi dà le carte: gli infimi uomini malati di potere o malati tout court – Cossiga è un ciclotimico e malvagio burattino – vengono a tratti sovrastati da un addolorato Paolo VI (Toni Servillo col cilicio). La seconda parte, più prevedibile, entra nel milieu confuso dei brigatisti, dedicandosi soprattutto alla coppia Morucci/Faranda, reali simboli di due passioni entrambe difficili da vivere e da far coesistere, quella amorosa e quella rivoluzionaria.
Trait d’union tra i diversi segmenti del racconto il piccolo grande Moro di Fabrizio Gifuni. Forse è una sorta di eccentrico zio finito chiuso in un tramezzo ornato da una bandiera rossa invece che in una più normale soffitta, se non è casuale nel primo episodio l’inquadratura di un manifesto del film Anima Persa di Dino Risi, quello con Gassman prigioniero in solaio che fa spaventose linguacce e urla tutta notte parole senza senso (“Eufrasia!”) o incomprensibili ai più. Se vi incuriosisce questa citazione, potete continuare a leggere qui
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