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Allonsanfàn
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Dardenne. Tori e Lokita, fratelli neri nell’inferno dell’Occidente

A distanza di tre anni da Le jeune Ahmed, Jean-Pierre Dardenne (1951) e Luc Dardenne (1954) ritornano a parlare d’integrazione.

Là un ragazzo musulmano che a Bruxelles si avvicinava al radicalismo islamico – e loro, davvero a torto, si presero degli islamofobi -, qui due ragazzi, anzi un’adolescente e un bambino che hanno affrontato da soli il difficile viaggio per lasciare l’Africa e approdare in Belgio. Il film è la storia della loro lotta, poiché hanno bisogno di documenti per mettersi in regola e di denaro da spedire alla famiglia, in bilico tra gli ipocriti tira e molla della burocrazia occidentale e il contatto quasi fatale con la criminalità organizzata.

Tori dagli occhi neri è il piccolo saggio che vive arrangiandosi e trova sempre la via per tirare fuori dai guai sé stesso e Lokita – e noi stiamo costantemente col fiato sospeso per lui e per lei. Lokita è la ragazzina fiera ed emotiva, che cerca una chance per sé stessa e Tori e per questo subisce ogni sopruso senza alzare mai bandiera bianca. Stupri e spaccio, abusi e violenze di ogni genere avvengono nel civile Belgio. Mentre allo spettatore italiano sarà impossibile non pensare alla pagliacciata criminale degli sbarchi impediti dai nostri neogerarchi, non appena scopre che i due protagonisti del film sono diventati fratello e sorella (e per tali vogliono farsi passare) durante la traversata del mare…

Tori e Lokita, dicevamo, toglie il respiro, perché i Dardenne, per poetica e conseguente efficace prassi, inseguono, braccano quasi i loro personaggi, chiudendo l’inquadratura su di loro, sulla loro disperazione e sul misero ambiente di cui si trovano a far parte.

Per questo non possiamo vedere sullo schermo uno spazio più ampio di un dormitorio, di un losco locale notturno, del retro di un ristorante lercio, di una cella dove la malavita organizza la manovalanza che produce droga. Il luogo angusto e pericoloso dei rifugiati è la prigione di Tori e Lokita – e quella del nostro sguardo, almeno per un’ora e mezza.

Dicono Jean-Pierre e Luc Dardenne: “Il nostro più grande desiderio è che alla fine del film il pubblico, che avrà provato una profonda empatia per questi due giovani esiliati e per la loro amicizia, provi anche un senso di rivolta contro l’ingiustizia che regna nella nostra società”. Sottolineando che i due registi sono narratori impeccabili, mai distratti nel loro cammino, mai devianti sulle vie del patetismo o della paraculaggine, capaci di trasmettere senza abbellimenti e al contempo senza rozzezza il loro messaggio – eh be’, sì, usiamo un termine dal sapore semioticamente antico, ma non è certo un misfatto per un artista recapitare, in questi tempi confusi, un messaggio che, per quanto circoscritto, fornisce un’idea del mondo. Poi, può seguire pure il dibattito.

Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film ha vinto il Premio Speciale per il 75° anniversario: i Dardenne avevano già vinto due Palme d’oro – per Rosetta nel 1999 e per L’enfantUna storia d’amore nel 2005 -, ma fosse per noi potevano anche vincerle tutte.

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