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Rapporto Migrantes. Se i giovani scappano all’estero una ragione c’è

Concentrati sui migranti in arrivo i giornali, ma soprattutto la politica, non si sono accorti degli italiani che se ne vanno. L’ultimo rapporto della fondazione Migrantes dice infatti che “la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale”. A questi bisogna aggiungere quelli che vivono all’estero ma non si sono ancora iscritti all’Aire.

Chi sono quelli che se ne vanno? Sono giovani (il 21,8% ha tra i 18 e i 34 anni), giovani adulti (il 23,2% ha tra i 35 e i 49 anni), adulti maturi (il 19,4% ha tra i 50 e i 64 anni), anziani (il 21% ha più di 65 anni, ma di questi l’11,4% ha più di 75 anni) o minori (il 14,5% ha meno di 18 anni).

Oltre 2,7 milioni (il 47%) sono partiti dal meridione (di questi il 16%, 936 mila circa, dalla Sicilia o dalla Sardegna); più di 2,1 milioni (il 37,2%) sono partiti dal nord Italia e il 15,7% è, invece, originario del centro.

In sostanza, da tutta Italia e sono di tutte le età. Ma molti sono giovani che, formati dal nostro sistema scolastico, vanno all’estero a vendere sul mercato le loro competenze.

La povertà in Italia Il Mulino Rapporto Migrantes
Perché lo fanno? Che l’Italia non sia un Paese per giovani ormai lo si sa, ma qualche elemento può chiarire la situazione. Partiamo, per esempio, dai rave. Secondo quanto scrive il quotidiano Domani, quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno ce ne erano stati cinquanta senza che nessuno se ne accorgesse. Improvvisamente sono diventati un’emergenza nazionale mentre a Berlino, racconta Danilo Rosato a Repubblica, fanno parte dell’economia cittadina. “L’Italia è un paese che odia i giovani, li considera un problema invece che una risorsa. Io perciò me ne sono andato”. Rosato, che i rave li organizza, vive a Berlino dove “tre milioni di persone vengono soltanto perché attratti dalla Clubszene, passano le notti a ballare e rilassarsi”. E fanno entrare 1,5 miliardi nelle casse della città.

Ma proviamo a spostarci sull’economia e il lavoro. Stefano Scarpetta, direttore per l’impiego, il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse, spiega che “le aziende devono limitare i profitti per buste paga più alte”. Già perché il “regime di povertà Italiano” trattato da Chiara Saraceno, David Benassi ed Enrica Morlicchio nel libro La povertà in Italia (Il Mulino) vede una importante presenza di lavoratori poveri. Famiglie monoreddito e un mercato del lavoro che produce un numero crescente di occupazioni precarie e a basso salario. In più, sottolinea Francesco Seghezzi di Adapt, associazione che si occupa di lavoro, “I giovani italiani sono quelli con il tasso di occupazione più basso d’Europa, ossia del 59,9% rispetto a una media del 74,7%. Bassissimo anche il livello di coloro che lavorano mentre studiano”.

Secondo Eurostat i giovani senza istruzione e occupazione nella fascia 15-19 anni in Italia sono il 13,2%, salgono al 26,1% fra i 20-24 anni e raggiungono il 29,4% fra i 25-29 anni. In tutte e tre le categorie si tratta del dato peggiore a livello europeo. Sempre Danilo Rosato dice che in Italia si parla solo di pensioni. E si trovano i soldi solo per quello. Rosato organizza rave ma è vero che nel nostro Paese la spesa previdenziale arriverà nel 2025 al 16,5% a fronte di una media dell’Unione europea del 9,9%. Nel frattempo molti giovani che con il loro lavoro avrebbero potuto contribuire al pagamento delle pensioni sono andati a finanziare i sistemi previdenziali stranieri.

Si sostiene che le buste paga sono basse perché bisogna fare crescere la produttività. Corretto. Solo che il rapporto Inapp, Istituto per l’analisi delle politiche pubbliche, dice che nell’ultimo trentennio gli stipendi sono scesi in Italia del 2,9% a fronte di un aumento nel resto dell’area Ocse del 38,5%, mentre la produttività in Italia è cresciuta del 21,9%. I benefici però non sono andati ai lavoratori. L’anno scorso otto contratti aperti su dieci erano atipici, l’11,3% di lavoratori è povero (2,1% nella Ue) così come i part-time involontari, dove il tempo parziale non è una scelta del lavoratore (3,2% nell’area Ocse).

Se volessimo affondare il coltello potremmo parlare delle classifiche, soprattutto quelle relative al digitale, che vedono l’Italia sempre in fondo. Perché la realtà è che ancora oggi le aziende italiane fanno fatica ad adattarsi al cambiamento e un giovane spesso si trova a lavorare in ambienti vecchi, obsoleti.

L’ultima indagine di Richmond dice che i manager italiani non sono adeguati a gestire i cambiamenti. Di questi tempi un difetto non da poco. C’è dell’altro? Su Radio 24 il programma Generazioni mobili di Sergio Nava racconta quelli che hanno scelto di andare all’estero. E tutti dicono di percorsi dove è stato inviato un curriculum, l’azienda ha risposto, c’è stato un colloquio nel quale il candidato – oltre a dare risposte – ha potuto fare un sacco di domande, e poi è arrivata l’assunzione.

Così si è trovato un lavoro spesso in ambienti internazionali dove lo smartworking è diventato la norma e regole di comportamento impediscono atteggiamenti inappropriati da parte dei propri capi.

Non è che all’estero siano tutte rose e fiori, ma se in tanti hanno deciso di andarsene forse vuole dire che Paesi Bassi e Regno Unito, per fare due esempi, riescono a offrire qualcosa in più.

Tanti anni fa, dopo un terribile fatto di cronaca, un prete di Napoli dal pulpito lanciò l’urlo Fuitevenne che riprendeva una frase di Eduardo de Filippo. L’invocazione è andata oltre Napoli ed è arrivata fino a Milano. Ma ora le preoccupazioni sono quelle del reddito dei balneari o dell’utilizzo del Pos.

credit foto in apertura: “Travelling” by Ludovico Cera is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

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