“Passavano per più profondi semplicemente perché scrivevano peggio.”
La frase virgolettata è del più grande scrittore del Novecento. Si riferisce agli autori di narrativa, ma ho l’impressione che valga anche per chi scrive saggi o più banalmente articoli su riviste e giornali. Marcel Proust, da cui ho tratto la citazione, ha compiuto la sua rivoluzione – La Recherche è un’opera rivoluzionaria – utilizzando nella scrittura del suo romanzo il più tradizionale dei linguaggi: avulso da sperimentalismi come da tentazioni avanguardistiche.
Scrivere bene significa scrivere in modo chiaro e comprensibile? O meglio: scrivere bene significa aver qualcosa da dire – possibilmente anche di nuovo e di originale – ed esprimerlo in modo intellegibile prim’ancora che gradevole? La categoria dei ciurlatori nel manico, ovvero di chi si sottrae alla promessa compiuta alla dèa comunicazione, è vasta come la soggezione che gli ignoranti provano nei confronti dei sapienti; questi ultimi avendo tradito innumerevoli volte il loro mandato, sono i veri responsabili della crisi che avvelena la nostra epoca. Chi scrive oscuramente e male spesso non ha nulla da dire: maschera l’assenza di profondità nel buio di un linguaggio criptico e infarcito di tecnicismi. Ma è davvero sempre così?
Sì e no, come quasi sempre del resto. C’è l’illeggibile Gianfranco Contini, colosso della filologia e straordinario indagatore della letteratura italiana, le cui pagine pur densissime di significato hanno procurato crisi di panico a più di uno studente; e c’è l’altrettanto inavvicinabile Massimo Cacciari che sin dagli esordi in Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein a più d’uno diede l’impressione di non aver niente di veramente nuovo da dire, ma di dirlo nel mondo più oscuro possibile. Secondo la nota legge per cui solo se è oscuro (e possibilmente pure oracolare) allora trattasi di pensiero profondo.
Sento già amici del bar del Giambellino obiettare che il linguaggio scientifico è un formalismo inevitabilmente complesso che richiede studio e disciplina. Hanno ragione, come ben sa chi insegna musica o matematica, lo strumento formale indispensabile per comprendere la fisica. Tuttavia, il piccolo (solo di massa) saggio su Heidegger scritto nel 1978 da George Steiner e pubblicato da Garzanti nel 2022, dimostra che invece è possibile scrivere in modo comprensibile di argomenti spinosi come il pensiero del “Mago di Messkirch” (così era soprannominato dai suoi studenti). Basta saperlo fare. Con la leggerezza con cui Rudol’f Nureev violava le leggi della gravità e (l’apparente) assenza di sforzo di le Roi Michel quando faceva correre il pallone al posto suo.
Provare per credere, sempre che riusciate a trovarlo il piccolo libro di Steiner. L’editoria italiana ha questo di speciale: cresce il numero dei nuovi titoli pubblicati e aumentano le tirature, ma non si ristampano saggi di importanza comprovata. In compenso lettori sono sempre gli stessi, pochi). Una (spero non troppo noiosa) premessa per raccontare di un incontro strabiliante, i Saggi su Proust di Bernard de Fallois pubblicati da La nave di Teseo. Un volume di 536 pagine che vale tutti i 26 euro graziosamente richiesti dall’Editore.
Prima di raccontarvi dell’incantevole incontro con il signor de Fallois – persona il cui garbo fa a gara con la misura della sua intelligenza – lasciatemi dire che frequento Marcel Proust da una cinquantina d’anni. Ho iniziato a leggere La Recherche intorno ai vent’anni per rispetto di quello che si chiama “dovere culturale”. Quella cosa che ti spinge a visitare una Biennale di Venezia e a sciropparti i saltabecchi in tutù alla Scala almeno una volta nella vita prima di pronunciare il fatidico “grazie, mai più”; ad ascoltare X, assistere Y e visitare Z anche se non hai la più pallida idea degli effetti che avranno su di te. Anche se preferiresti andartene al mare. Ma sai che devi farlo perché così ti hanno insegnato. E perché, come per il paté de foie gras o le lumache al pomodoro, è il solo modo per scoprire se X, Y e Z ti piaceranno o meno. Insomma, quella cosa che una volta chiamavano “romanzo di formazione” e che oggi pare riservata solo ai quattro fortunelli che frequentano la Normale a Pisa.
Poi, pagina dopo pagina, il piacere ha preso il sopravvento sul dovere. Così La Recherche oltre che godimento puro si è rivelata una fonte pressoché infinita di insegnamenti sulla relatività dell’animo umano: Proust, oltre a essere un gigante nell’arte del romanzare una storia, è parente stretto di moralisti del calibro di Montagne e Pascal e, grazie a una irresistibile vis comica, è pure nipote di un certo Molière. Il tema del suo romanzo-saggio è il cambiamento: le trasformazioni che, consapevoli o meno, subiamo a opera del Tempo. Mutamento che per esempio cogliamo quando, rileggendo un’opera dopo molti anni, scopriamo di provare impressioni del tutto diverse. Come se il testo fosse nuovo. Eppure le parole sono le stesse. Siamo noi a essere mutati. L’“io” di allora è morto, dice Proust, non esiste più.
Come tutti i proustiani di stretta osservanza ho comprato, collezionato e letto un grande numero di articoli saggi sulla vita e sull’opera del grande recluso francese. Contravvenendo (per curiosità? pruderie? amore per il pettegolezzo?) ai suoi stessi insegnamenti: l’“io” che scrive nel silenzio della sua stanza è destinato a restare un perfetto sconosciuto rispetto all’“io” sociale che crediamo di conoscere; è questa la tesi che Proust, a ragione, sostiene nel saggio Contro Saint-Beuve. Le biografie quindi non ci insegnano niente di più di quello che già sappiamo grazie all’opera. Contravvenendo ad un’altra regola (“chi scrive oscuro molto probabilmente non ha nulla da dire”) ho affastellato gli scaffali della mia biblioteca con “studi proustiani” spesso ridicolmente inutili.
Prima di incontrare il magnifico Saggi su Proust di Bernard de Fallois, il mio saggio preferito era Un’estate con Proust (Carocci, 2015). È un piccolo libro geniale che (così recita la scheda di presentazione) “raccoglie le voci di otto lettori d’eccezione – romanzieri, biografi, professori universitari, intellettuali – che hanno tutti dedicato gran parte della loro vita allo studio di Proust e che nell’estate 2013 hanno accettato di parlare della “loro” Recherche ai microfoni dell’emittente radiofonica France Inter, attraverso un tema che gli stava particolarmente a cuore o una pagina che li aveva particolarmente colpiti”.
E veniamo finalmente al signor de Fallois, il cui libro è diventato ufficialmente la mia nuova arma di “tormento selettivo” di chi mi sta intorno. Precisiamo innanzitutto che l’autore deve aver vissuto almeno tre o quattro vite: classicista prima, scopritore e curatore di inediti proustiani poi; infine manager e fondatore di case editrici. A lui dobbiamo la scoperta e la pubblicazione del Jean Santeuil e di Contre Sainte-Beuve, voluminoso romanzo giovanile non portato a termine il primo, saggio critico il secondo. Entrambi testimoniano sia la mole di lavoro compiuta da Proust nel corso della sua vita, ritenuto sino a pochi anni un fancazzista specializzato in salotti dell’alta società, sia il fiuto e l’autorevolezza del de Fallois. Raccomandare, promuovere e regalare i Saggi su Proust mi sembra sia il modo migliore di celebrare il lavoro del piccolo Marcel.
Negli ambienti proustiani circola fra molte altre una sciocchezza che più anti-proustiana non si può. È il tristemente famoso aforisma che divide il mondo in due categorie: quelli che hanno letto Proust e quelli che no. Imbecillità suprema: se c’è un aroma che prepotentemente profuma tutte le 3.700 pagine della Recherche, questo è la sorridente ferocia con cui è messo alla berlina ogni snob e ogni genere di snobismo. Il mondo si divide semmai tra coloro che hanno capito qualcosa della Recherche e coloro che l’hanno sfogliata come la guida telefonica di Kansas City. La prima grande lezione dei Saggi su Proust di Bernard de Fallois è questa: spero che tu legga (o rilegga) La Recherche, in caso contrario – nell’ipotesi che tu non la leggerai mai – ascolta cosa ho da dirti su una delle opere più importanti nella storia dell’umanità scritta da un uomo che occupa un posto di primo piano accanto a Omero, Dante, Shakespeare.
Proprio così, “ascolta” dice Bernard de Fallois. Perché il volume si compone di due parti. La prima è tratta dalle Sette conferenze su Marcel Proust, lezioni illuminanti che in modo piano, semplice e diretto affrontano argomenti quali “come ha composto Proust il suo romanzo? cos’è un personaggio proustiano? che parte hanno nella sua opera il comico, l’amore, la riflessione filosofica, l’arte?”. La seconda, intitolata Introduzione alla Ricerca del tempo perduto, un esempio unico di sintesi e limpidezza argomentativa, offre una guida di straordinaria efficacia per leggere in modo consapevole il capolavoro proustiano, per ammirarne la grandezza, coglierne l’assoluta novità e – soprattutto – godere di uno dei più grandi piaceri che la vita ci concede: la lettura.
Sintesi, semplicità, limpidezza. Come pare affermasse Einstein, “Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna”. Quando leggo un saggio – non importa l’argomento: dalla vita riproduttiva della Berta maggiore sino ai cento modi di cucinare il dinosauro con la panna – ho il diritto di imbattermi in un testo redatto da un autore (chiunque esso sia) che ritiene sia suo dovere farsi comprendere. L’oscurità che annuncia il mistero del perturbante lasciamola ai poeti. Possibilmente grandi.
Credit: Marcel PROUST by didier ddd / stencil experiences is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.