Il completo indossato da Roger Federer nella partita che ha chiuso ufficialmente la sua carriera (Londra, 23 settembre 2022) è esposto da qualche giorno nel museo dell’International Tennis Hall of Fame di Newport-Rhode Island. Contemplata dai fan come la reliquia di un dio ancora vivente, una sorta di “sindone” laica, la tenuta (Uniqlo) prestata da “Re Roger” è l’ultimo cimelio messo in mostra nel museo americano. Che nell’agosto del 2021 si è arricchito di un’altra importante acquisizione: trentuno opere, tra queste Il giovane con racchetta da pallacorda di Michele Desubleo (databile 1640), appartenenti alla collezione d’arte di Gianni Clerici. Sì, proprio “quel” Gianni Clerici: lo “scriba” (autodefinizione) che ha deliziato generazioni di lettori di Repubblica con l’inimitabile stile – competenza e leggerezza, la passione e il disincanto dell’ironia, che rendevano così godibili le sue corrispondenze “in lingua lombardese” (copyright Maria Corti) dai tornei in giro per il mondo.
Cronista, scrittore, poeta, commediografo, ricco di famiglia, il comasco Gianni Clerici (1930-2022), amante del tennis (praticato in gioventù fino a diventare membro della nazionale italiana di Coppa Davis) quanto dell’arte, poteva permettersi di acquistare le opere di cui si innamorava visitando, anche in trasferta, mostre e gallerie. Del tennis, che definiva “gioco” e non sport, conosceva tutto, come documenta il suo voluminoso 500 anni di tennis (Mondadori Electa), tradotto in sei lingue (e battuto all’asta a Londra a 1.500 sterline) nel quale lo racconta fin dalle origini, quando si chiamava “pallacorda” e si giocava per strada. Fu dopo una partita in un recinto di via della Scrofa in Campo Marzio che scoppiò la lite nella quale il Michelangelo Merisi/Caravaggio ammazzò il suo avversario e rivale in amore Ranuccio Tomassini e dovette fuggire da Roma, il 28 maggio 1606. Il fatto è rievocato in due diversi dipinti intitolati La morte di Giacinto: il primo attribuito a Cecco del Caravaggio (1588-1620) si trova in Normandia al Museo Thomas-Henry di Cherbourg, il secondo è di Tiepolo (1696-1770), ospitato nel Thyssen-Bornemisza di Madrid: in entrambi compaiono delle racchette molto simili aquelle del tennis odierno.
Non è meno imponente il volume Il tennis nell’arte (Mondadori, 2018) scritto da Clerici con la consulenza della storica dell’arte Milena Naldi: un viaggio in una sorta di museo cartaceo che ricorda ogni incontro dello scriba con ognuna delle opere in mostra. Definito da Calvino “uno scrittore in prestito allo sport” Clerici è autore anche del romanzo Divina (Corbaccio) e della commedia La diva del tennis, protagonista di entrambi è la francese Suzanne Lenglen: l’autore non l’aveva mai vista giocare, ma le foto che immortalavano nei “gesti bianchi” del tennis quell’atletico corpo femminile in mise Jean Patou l’avevano inesorabilmente affascinato.
Il tennis “è” letteratura. Ogni partita un racconto. Sempre uguale, sempre diverso: intrigante come (sconfinando nel cinema) la partita silenziosa giocata dai mimi in Blow-Up di Michelangelo Antonioni, o come la pallina in bilico sul nastro della rete in Match Point di Woody Allen. Sarà per questo che ha coinvolto scrittori tanto grandi. Da Nabokov (per un certo periodo fu maestro di tennis in un club) che ci strugge con gli struggimenti del professor Humbert ammaliato da Dolores-Lolita sul campo da tennis, a David Foster Wallace (1962-2008), considerato il più grande innovatore della letteratura americana contemporanea. DFW ha ambientato il suo labirintico romanzo Infinite Jest, un tomo di 1296 pagine – evento letterario del 1996 negli Usa – in una immaginaria Accademia di tennis del Massachusetts, in un futuro (oggi forse già “presente”) governato dalle leggi dell’intrattenimento e della pubblicità.
Nei due saggi del libro Il tennis come esperienza religiosa (Einaudi Stile libero) il linguaggio semplicissimo – allo stesso tempo pulp e coltissimo – di DFW ci porta dentro due partite, una agli US Open di New York, l’altra a Wimbledon giocata tra Nadal e Federer: sono racconti molto hic et nunc con la data e l’ora, con appunti veloci sul pubblico, le marche delle patatine o degli occhiali di moda, le pagliette degli spettatori in tribuna in giacca e cravatta e le canotte a rete e i berretti col supporto per la lattina di birra nel settore “popolare”. I gesti dei giocatori. L’eleganza di Federer persino nel sistemarsi la bandana, l’irruenza di Nadal. E la solitudine del giocatore che, dice DFW, è la stessa solitudine dello scrittore.
David Forrest Wallace, minato per quasi tutta la vita dalla depressione, è morto suicida il 12 settembre 2008. Da allora il tennis è cambiato, virando verso lo “spettacolo”. I nuovi bellissimi campioni – il greco Tsitsipas, il russo Rublev, l’italiano Berrettini, e gli altri – non sembrano più tanto “soli con se stessi”: a ogni colpo vincente guardano verso il loro team a bordo campo stringendo il pugno, e addirittura alzano le braccia verso il pubblico per sollecitare “la ola”. Meglio o peggio che sia, la solitudine del tennista sembra non esistere più. Resta, forse, quella dello scrittore.
* Jonne Bertola, giornalista milanese. Autrice del romanzo Swinging Giulia e di Piacenza (Morellini) e di Di chi è questo corpo (Luoghinteriori)
Nella foto di apertura, Roger Federer, un immortale. Credit: David Foster Wallace by Steve Rhodes is licensed under CC BY-NC-SA 2.0. Amazing Roger Federer” by toga is licensed under CC BY 2.0.