Perché scrivo è il titolo di un articolo di Joan Didion. Dà il nome a una raccolta di saggi scritti tra il 1968 e il 2000 che il Saggiatore pubblica al non modico prezzo di euro 17. La Didion lo ha ripreso da George Orwell, tuttavia le motivazioni dei due autori non potrebbero essere più diverse. “La particolarità dell’essere uno scrittore” afferma Didion “è che qualsiasi iniziativa implica l’umiliazione mortale di vedere le proprie parole stampate”. Il contrario di quanto sosteneva lo scrittore britannico: “Ciò che soprattutto ho cercato di fare negli ultimi dieci anni è stato trasformare la scrittura politica in arte. Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico ‘Voglio produrre un’opera d’arte’. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare”.
Beninteso, penso che anche Didion “voglia farsi ascoltare”. Non mi pare però che il suo obiettivo sia smascherare i bugiardi né tantomeno combattere le ingiustizie. Probabilmente scrive perché non può farne a meno. Perché ne ha bisogno. E perché è connaturato con il suo modo di essere e interpretare l’esistenza. Eppure, nonostante l’assenza di pronunciamenti, denunce e istanze ideologiche, i dodici saggi della giornalista, scrittrice e saggista statunitense esprimono un’idea della vita e dello stare al mondo infinitamente più politici della stragrande maggioranza della così detta “letteratura a tesi”. Innanzitutto perché, come sosteneva Proust, il Grande Recluso del Novecento, “un libro dove ci sono delle teorie è come un oggetto sul quale si lascia il cartellino del prezzo”; in secondo luogo perché Didion all’io, il più sgradevole dei pronomi, sostituisce la visione defilata di chi sta un passo indietro rispetto al centro della scena; una lateralità che consente di osservare senza giudicare affinché sia il lettore a trarne le conseguenze. (Inutile sottolineare come in questo stile di scrittura consista l’essenza della modernità?).
Dodici micro-saggi. I più strepitosi sull’apprendimento della scrittura: come si studiò la scienza dello scrivere all’università, come imparò il mestiere della sintesi commerciale nella redazione di Vogue. Arte e mestiere che Didion mostra di padroneggiare con sapienza mefistofelica nel saggio dedicato agli inediti di Hemingway: l’analisi della punteggiatura nell’incipit di Addio alle armi dovrebbe diventare testo obbligato nelle scuole di scrittura creativa.
Tornando all’affermazione che dà il titolo alla raccolta, penso che l’argomentazione sottesa sia sempre la stessa: perché scrivere e per chi. Se la poneva Didion giovinetta quando fu rifiutata dall’università di sua prima scelta; se la pongono ogni giorno le migliaia di poeti, romanzieri, narratori e drammaturghi le cui schiere hanno sostituito i tradizionali santi, navigatori ed eroi. Temo che però che i millanta aspiranti scrittori non si chiedano “perché scrivo” né “per chi”, bensì “sarò pubblicato?”. È a queste masse strabocchevoli di disperati (“Tenetevi, o antiche terre, la vostra vana pompa. Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”) che le scuole di scrittura creativa vendono i loro corsi. Non per imparare a scrivere in modo efficace, funzionale e magari pure gradevole una mail, un comunicato stampa, un report aziendale, un testo commerciale o una lettera d’amore alla fidanzata lontana. No, la promessa riguarda l’esercizio più difficile in assoluto: l’arte del romanzare una storia, costruire una trama, dare spessore ai personaggi, realizzare dialoghi così avvincenti da farsi leggere.
L’ultimo annuncio pubblicitario che ho letto pochi giorni fa (non faccio nomi perché vengo da famiglia abbastanza povera) elencava nel dettaglio gli argomenti trattati nel corso on-line. La cosa più sorprendente, forse persino più della stratosferica retta annuale, sono i nomi dei docenti: autori noti, regolarmente pubblicati dalle più importanti case editrici italiane. Come tutti sanno, il nostro mercato patisce una doppia ristrettezza: all’esiguità dei parlanti l’italiano nel mondo si associa l’inconsistenza del numero assoluto di lettori in patria. Le due cose vanno di pari passo. Di conseguenza è inevitabile che un autore di narrativa italiana faccia più mestieri per campare. Nulla di disonorevole, anzi. Tuttavia pare abbastanza comica l’idea che gli “autori pubblicati” arrotondino vellicando sogni persino più improbabili di una vincita al lotto. Come non ho mai incontrato qualcuno che abbia imparato le lingue ascoltando le cassette, così non mai conosciuto un poeta laureato nelle scuole di scrittura creativa. Sarà perché, come sosteneva Pascal, “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce” oppure per via del fatto che esco raramente di casa?
Nella foto, Joan Didion nel 1970 by Kathleen Ballard, Los Angeles Times