Nel campo del romanzo italiano, tra fautori della trama a tutto noir e forzati del memoir, tra cascami del post post post moderno e prodotti che non contengono neanche un minimo garantito di letteratura – intesa come somma degli artifici costituenti uno scritto in grado di fornire al lettore l’indirizzo di poetiche note o l’indicazione di strade precedentemente battute da scrittori italiani o stranieri – compaiono a volte testi tradizionali, non “passatisti” o ignobilmente polverosi, ma anzi, tradizionali in senso aristocratico e cioè che si riconoscono, si riconnettono, magari pure minandola, a una tradizione.
Con Il vecchio figlio (Atlantide), di cui cogliamo subito a mo’ di avvertimento retorico l’ossimoro del titolo (per regola i figli sono giovani), si ripresenta ai lettori il sessantenne Luciano Allamprese, dopo uno stop (che credo) trentennale, seguito a un interessante romanzo oggi dimenticato – e questa latitanza ci darà ulteriori spunti di riflessione.
Comunque. Il vecchio figlio parte come un tradizionale romanzo di famiglia – felice o infelice che sia, e infatti di scorcio la madre legge Anna Karenina – di quelli che ricostruiscono un lessico famigliare (vedi alla voce Natalia Ginzburg). Allamprese svela i meccanismi di un’educazione al mondo attraverso una serie di parole o di formule linguistiche condivise attorno a un desco – formule condivise, per esempio l’uso in serie di epiteti costanti, ma in realtà imposte dal capofamiglia. Le parole sono di solito appannaggio di chi ha potere sugli altri e, per soprammercato, in questo caso il potente genitore è un militare, il Capitano Ballaruccio.
Infatti: il romanzo famigliare diventa ben presto un passo a due tra il padre despota e il figlio che cresce ribelle, con l’intervento dirompente di una nuora enigmatica e problematica a fare da terza incomoda, da scheggia impazzita (per rimanere all’epiteto costante).
L’attenzione alla lingua come motore stesso della narrazione – oltre che segno dell’appartenenza a (o dello scarto da) una tradizione famigliare e letteraria – invade in modo profondo il testo di Allamprese, quando il figlio legge alla stregua di uno studioso, con effetti comici, le miserevoli lettere speditegli dal padre, illuminandone il contenuto alla luce dello stile. Si palesano metafore e metonimie da poveracci, iperbati da caserma, lapsus e forzature ideologiche nell’uso dei termini, e poi il trionfo di iperboli fruste dall’uso – trionfanti non appena l’esame si sposta dal lessico del padre alla trappola comunicativa del matrimonio con Serenella, un nomen omen ma al contrario.
Il vecchio figlio che tra parentesi fa il bibliotecario è capace un po’ ossessivamente di isolare un endecasillabo in un feroce scambio di battute con Serenella. Non è difficile pensare, allora, che secondo Allamprese noi siamo racchiusi e svelati in formule fatte di parole, liberi quasi mai e più spesso inchiodati in esse…
Mi incuriosisce che lo scrittore abbia pubblicato nel 1989 un brillante e disinvolto romanzo d’esordio per Mondadori, Strane conversazioni con le donne: illustrato in copertina da una serie di warholiane Marilyn, doveva forse fare boom. Era parte il debuttante Allamprese, se ben ricordo, di una covata di scrittori di metà anni Ottanta tra cui spiccavano Lodoli, Affinati e Albinati. Il debutto di Allamprese era una sorta di catalogo sentimentale, ove un trentacinquenne ardito puntava l’occhio, incrociandole, sulle sue due passioni, letteratura e genere femminile.
Non fece boom il romanzo (credo) e ritrovo ne Il vecchio figlio 34 anni dopo – anni occupati da un blackout autoriale rotto da curatele – all’incirca le stesse specifiche biografiche e geografiche dell’esordio nel profilo riportato sull’aletta: insegnamento e ricerca in Paesi lontani, di lingua ispanica, un posto da professore nella nostra capitale. Identici gli identikit di Allamprese, che ha evidentemente trascorso tanto tempo in aristocratica (penso di poterlo dire) fedeltà a se stesso, la quale non ha contemplato fretta editoriale (anzi!) e urgenti temi imposti dal presente – chiedete per il significato di urgenza al Capitano Ballaruccio.
Ecco: l’Allamprese che consiglio di leggere oggi è lo stesso scrittore degli esordi, passato a fare i conti definitivi di una vita con un padre tirannico e mediocre, sentimentale e burocratico, apprensivo e gretto. Lo scorrere delle pagine e del tempo segna un passaggio (anche linguistico) di forza e di poteri tra due uomini, con una dame sans merci che facilita lo scambio di consegne… Uno scambio paradossale. Ma questo lo vedrete da voi.
Sottolineando che Il vecchio figlio non è affatto un metaromanzo ma un romanzo vero e vivissimo, che semplicemente apre nella narrazione vie interessanti e svela quinte sofisticate, riporto un giudizio di Marco Lodoli, di certo più autorevole di me: “Allamprese racconta questo percorso di amore, negazione e sostituzione con una scrittura meticolosa, tagliente, crudele. È un libro spietato che fa pensare a Svevo e anche all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij: il protagonista non ha nessuna clemenza verso se stesso, racconta passo passo il fallimento della propria esistenza … di animale catturato nuovamente dal proprio passato”.
Rileggerò bene la mia prima edizione di Strane conversazioni con le donne, che giaceva intonsa in uno scaffale, a maggior ragione incuriosito da un’antica stroncatura trovata in rete. La Repubblica, per penna di Fabio Ciriachi, titolava “Sono un mandrillo senza qualità” e trattava il libro come fosse il memoir di un esibizionista invasato. È invece un libro scaltro e cool, che affronta i codici di comunicazione del sesso, ma si era trent’anni fa e più, e guai a pensare che qualcuno potesse fare nuda e cruda autofiction.
Nota a margine Leggendo tanta spazzatura sento il bisogno che i romanzi di fiction, invece delle indicazioni sul tempo di lettura spesso fornite dalla rete – sono, ancorché fondamentali per i pendolari della lettura, il capolinea della stessa -, segnalino il tasso minimo di letterarietà.