Le guest star interpretano se stesse. Questa la particolarità della serie italiana, derivativa del format francese, che sfrutta l’escamotage abusato di far recitare un personaggio noto (in questo caso specifico data l’ambientazione in un’agenzia dello spettacolo attori, registi, o comunque persone del jet set cinematografico barra televisivo) nel ruolo che in tempi meno cool si sarebbe detto di se stesso: quei cammei che nelle intenzioni della produzione fungevano da ciliegina su torte spesso rancide o da richiamo per pubblici più interessati alla fugace apparizione del divo momentaneo che alla trama della finzione e il cui effetto straniante era – nel contesto fittizio che si voleva accreditare come reale – l’apparizione del medesimo al quale era probabilmente richiesto dalla regia, allo sbaraglio con relativa pacca sulla spalla, proprio l’essere ciò che in genere si domanda ai bambini che recitano, in stridente contrasto con la prosopopea interpretativa degli attori professionisti. Quel se stesso che si vorrebbe non mediato dall’interpretazione viene risolto col semplice tentativo di riprodursi così come si vorrebbe o si crede d’essere percepiti, dato per scontato il minimo sindacale che tutti facciamo nella vita quando ci presentiamo agli altri o in società: la maschera paracula che tutti portiamo in giro e che se siamo bravi moduliamo a seconda delle situazioni o gestiamo in funzione degli obiettivi quando questo essere noi stessi è il risultato quantistico dell’intrecciarsi, onda su onda, delle nostre relazioni pubbliche e private, fingendo di prenderci in giro solo per dimostrare d’essere ancora più ganzi.
La risposta ovvio non può che essere negativa riconsegnandoci all’unica verità che abbiamo delle persone, compresi noi stessi: quel meno di noi che è il più che determina le nostre vite da altri, la maschera che come l’abito o le parole ci rivela non attori ma individui nel mondo, sempre in parte nella parte. La nostra più intima svergognata identità. Quella che l’attore crede per abbaglio di nascondere dietro il personaggio o tanto più di proteggere quando finge ironicamente di fare se stesso, condannato a essere sempre maschera, restituendoci tutti alla complessità. E la controprova ce la regala Emanuela Fanelli che interpreta Luana Pericoli facendo semplicemente l’Emanuela Fanelli di Una pezza per Lundini che qui aspira a diventare come in Fleabag autrice del suo personaggio aspirando all’autofiction nel mentre, intervistata nella realtà, precisa di non rivedersi nel personaggio (considerandone non la sostanza ma solo gli accidenti contingenti). Il percorso che si fa in letteratura quando si precisa che i personaggi sono frutto dell’immaginazione dell’Autore (con la a maiuscola e perciò nella parte) proprio quando sono più vicini al vero (altrimenti la precisazione sarebbe superflua) e il suo contrario quando l’Autore medesimo si cala nella finzione fingendosi parte della stessa nel dichiararsi al principio un impostore, e quindi dicendo il vero. Quello che accade quando si usa la parodia per rappresentare in una serie TV la produzione delle serie TV, per sfruttare l’effetto comico, e si finisce col metterne in scena il lato più autentico e drammatico: sceneggiature abborracciate prive di verità storica, coppie lesbiche che si corteggiano maldestre come quelle etero, giornalisti inginocchiati al cospetto dello star system, meta critica dell’inclusività di matrice netflixiana che promuove ancora di più l’indifferenza verso le differenze, vaticini sulla morte della serialità, esaltazione del prodotto casalingo a esclusivo fine di marketing, applicazione di modelli americani con vent’anni di invecchiamento, promozione di un sistema chiuso che si basa sullo scambio di favori, macchiettismo intergenerazionale, giovanottismo positivista che occulta lo sfruttamento del precariato, anzianottismo in cerca di paradisi artificiali che rinuncia a Piazza del Popolo per Bali, see vabbé…
- Per altri (S)visti di Gabriele Nava, qui.