L’algida direttrice d’orchestra Lydia Tàr ha uno scopo: incidere con i Berliner, da residente, tutte le Sinfonie di Mahler – le manca solo la Quinta. Mahler non per caso: era il musicista feticcio, quasi l’anima guida, per il mentore di Lydia, Leonard – ma lei lo chiama confidenzialmente Lenny – Bernstein.
Non ce ne stupiamo: Tàr vive ai piani alti della vita, intellettuale e pure materiale – un codazzo di galoppini/e fanno da gemme alla sua corona, mentre viaggia avanti e indietro tra la Germania e New York, attesa pazientemente dalla sua moglie musicista, Nina Hoss la quale peraltro era già stata traumatizzata di suo in un recente film sulla classica, il tedesco L’audizione. Comunque, se Lydia concede un’intervista, le fa le domande direttamente Adam Gopnik del New Yorker (qui, qualificato as himself).
Comunque, ancora. Lydia Tàr, elegante e disinvolta – cammina svelta a piedi nudi nella sua dimora quasi museale dagli alti soffitti – ha idee molto chiare pure sul gender. E come no? Lesbica e madre, può persino permettersi di sfottere, in una masterclass, l’allievo gay che non ha empatia con Bach in quanto prolifico eterosessuale. Buon senso, altro che #MeToo, e per un po’ il film (il terzo in vent’anni) del regista Todd Field, sceneggiatore su un suo soggetto originale, pare un docu film di Arte dedicato a un’artista al top. Con una mano, la direttrice d’orchestra Lydia Tàr dà il ritmo, con l’altra l’espressione: e, ci dice, può persino fermare il tempo, lei, nel godimento felice delle battute di un tema mahleriano… Ma: la bacchetta del Maestro è pur sempre un invidiato simbolo fallico, oltre che un agognato scettro di potere. E anche se Field non cita anzi se ne fotte dell’apologo caciarone alla Prova d’orchestra di Fellini, deve aver dato un occhio a all that jazz di Whiplash del collega Damien Chazelle.
E dunque SPOILERIAMO. Mano mano che il bellissimo documentario procede, si tramuta in commedia sofisticata e poi in dramedy e poi (quasi) in dramma tout court, mentre nella vita vincente di Tàr, in apparenza ineccepibile, si aprono piccole crepe, trascurabili finché non minacciano di allargarsi, di poter mutare l’espressione calma e decisa del bellissimo e terso viso di Cate Blanchett, di attaccare non soltanto l’apparenza, ma le strutture portanti di una magnifica costruzione…
Come ci si sente a essere diventati una pietra che rotola (a non essere più nessuno)? Lo chiedeva una volta Bob Dylan a una ragazza nobile improvvisamente decaduta, e forse finiremo a domandarlo anche noi (altro che Gopnik!) a Lydia Tàr e a domandarci insieme agli altri spettatori dove Tàr ha sbagliato, mentre al termine di due ore e mezza di proiezione, gestite da Field a due mani, con i tempi e l’espressione di un direttore d’orchestra – la mano sinistra frena costantemente invitando a un’esecuzione composta – assistiamo a una simbolica e geniale scena finale.
Oscar in vista nell’infuriare della polemica, già accesa in USA. Contro una Blanchett convinta che “il film è una meditazione sul potere, inteso come una forza corruttrice, ma un potere senza genere”, si è scatenato Richard Brodi sul New Yorker del 12/10/2022, definendo Tàr “un utile promemoria della connessione tra idee regressive ed estetica regressiva” e definendo il film astutamente “ottuso”. Todd sosterrebbe “la prospettiva di Lydia per quanto riguarda la musica, i rapporti professionali e l’estetica quotidiana, mentre coltiva attentamente l’ambiguità riguardo a ciò di cui Lydia è accusata”, lasciando tutto in ellisse. Ecco: a voi la parola.