Un romanzo che è una riflessione sulla vita. La storia di un bambino degli anni ’70 che si intreccia ad altre storie. Quella della sua famiglia, innanzitutto. E poi i ricordi della guerra e della Resistenza, e la città di provincia dove è nato e dove è cresciuto tra persone e personaggi che, a loro modo, hanno saputo interpretare ed esprimere l’evoluzione di quel tempo. Un due tre Stella! (Mimesis) di Fabrizio Meni ha vinto il Premio Acqui Storia nella sezione edito e inedito per la narrativa. E, ancora, è stato segnalato al XXIV Premio Calvino, con una motivazione che bene spiega il senso del racconto: “Per la densa e potente saga familiare monferrina che attraversa il Novecento per arrivare al secondo dopoguerra del riscatto, con l’Eternit delle polveri d’amianto sempre all’orizzonte, è un singolare esempio dell’uso della letteratura di memoria per produrre teoria, critica sociale, riflessione politica, lettura antropologica, il tutto reso però in modo leggero”.
Meni, 59 anni, insegna filosofia e storia al liceo classico di Casale Monferrato e si occupa di progetti teatrali e musicali nell’ambito del laboratorio Colibrì per l’educazione alla sostenibilità ambientale e sociale. Della storia della sua terra ha già scritto in Quando i tetti erano bianchi. Casale e il basso Monferrato dal fascismo alla Resistenza (Edizioni Dell’Orso).
Si legge alla fine del tuo romanzo: “Se avessi ancora quel superpotere del Marcondirondero, farei che questo racconto incontrasse il favore di tutti quelli che non smettono di cercare i bambini che erano, spersi chissà dove”. Nasce dalla ricerca di te bambino la storia che hai scritto?
Il progetto iniziale era di recuperare i ricordi di un bimbo e dei suoi genitori. Mettendo in evidenza l’idea del tempo che scorre. Ma una volta iniziato a scrivere, narrare gli anni ’70 visti con gli occhi di un bambino mi ha sempre più coinvolto. Da qui il tentativo di uscire da una dimensione locale e anche personale. Un due tre Stella! è un romanzo: lo spunto è autobiografico ma ho inventato situazioni, ne ho “colorato” altre, ho trasformato persone in personaggi. Quello che mi interessava non era tanto la storia della mia famiglia, che è abbastanza comune, ma rendere i significati di esistenze che possono essere quelle di chiunque.
Nel romanzo c’è molto della Casale – la tua città – di quegli anni, con i preti operai, la polvere bianca di amianto, la fuga dal carcere di Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse. E nelle pagine si respirano profumi e odori di quel tempo.
Sì, è una scelta voluta. Da bambino giravo tra le strade della città quasi come si gioca a mosca cieca, con gli occhi semichiusi, seguendo profumi e odori. Li stessi che mi sono tornati in mente mentre scrivevo il romanzo, quando cercavo dentro di me i ricordi.
In Un due tre Stella! emergono due modi e due mondi accomunati dalla “dannazione dell’esistere”: quello del tirare avanti di chi nasce sentendosi già condannato e quello di chi vive per “la roba”.
Ho voluto descrivere due tipologie diverse di persone. I migranti (che allora, per la storia legata al fascismo, arrivavano dal bergamasco e poi se ne andavano in Francia) e i contadini legati alla terra. Persone molto diverse tra loro ma con un atteggiamento comune nei confronti della vita fatto di rassegnazione ma anche di ottimismo, di forza nel tirare avanti. Tutto questo, negli anni ’70 del miracolo economico, si è sconvolto. Travolto dall’idea della corsa, del salire in alto, sempre di più.
Racconti di un passato relativamente recente, gli anni ’70, ma anche della guerra e della Resistenza. E scrivi: “A confrontarci con l’oggi, eravamo come alieni su un altro pianeta”. Sono passati 50 anni e sembrano mille…
È esattamente quello che volevo comunicare, il mutamento antropologico che abbiamo avuto tutti. Quando ero bambino io, di quello che era stata la guerra si parlava in casa, e si aveva bene presente che sì, si era fortunati, ma la precarietà era sempre lì, la “malora” sempre in agguato. Pur con un ottimismo di fondo: l’abbiamo scampata e adesso dobbiamo ricostruire. Ora non ragioniamo più così. La “malora” resta in agguato ma non ce ne rendiamo conto. E anche la speranza la vedo diversa, diamo troppe cose per scontate.
Il titolo del libro e quelli dei capitoli sono le filastrocche di un tempo: Un due tre Stella!, Ma che bel castello, Giro giro tondo, Dire fare baciare lettera e testamento…
Ho voluto recuperare la dimensione del gioco in cui il bambino è sempre immerso. L’idea del sogno a occhi aperti, del vivere in un mondo quasi parallelo che è proprio quello del gioco. E dell’amico immaginario che esiste davvero, anche se solo nella fantasia.
Tu che sei filosofo scrivi: “I filosofi cercano la misura del dolore. Il sistema delle vite degli uomini è un caos impazzito e imprevedibile, perché a complicarlo ci sono tutte le nostre voglie, fantasie, cattiverie, malignità, che sparirebbero d’incanto se conoscessimo la misura del dolore”.
La misura del dolore è la risposta della filosofia, la risposta che la filosofia continua a cercare. Ha tanti significati che non ho spiegato perché vorrei che il lettore provasse a cercarla da sé. Quello che ho scritto è che troppo spesso ci lamentiamo, siamo tristi e depressi per ragioni di nessuna importanza. Della misura del dolore ci rendiamo conto solo quando a noi stessi o a persone che ci sono vicine accadono cose davvero gravi. Ecco allora che ridimensioniamo tutto il dolore di cui abbiamo sofferto prima. Poi però ce ne dimentichiamo e non impariamo mai, e riprendiamo a farci del male, a vivere di rancori, tristezze, rabbia.
“Mio nonno e mio padre sono vissuti dando per scontato che prima o poi una guerra sarebbe tornata. Io sono cresciuto nella convinzione che non potesse mai accadere” dici nel libro. Della situazione di oggi cosa pensi?
Penso che viviamo la paura della guerra in una dimensione molto diversa da quella degli anni che racconto nel mio romanzo. Noi della guerra che si sta combattendo oggi alle porte dell’Europa ci preoccupiamo intellettualmente. Ma non siamo coinvolti personalmente come invece era chi, uscito dal secondo conflitto mondiale, continuava a sentirsi minacciato da un pericolo concreto, anche imminente.