I ricordi della guerra – vissuti da civili o da soldati, da bambini o da adulti – rimangono impressi nella memoria come fotografie. Ero appena nato quando nel 1940 Mussolini decise di entrare in guerra e conservo ancora qualche ricordo che mi riporta al 1943, il periodo più brutto per l’Italia moderna. In seguito vi si aggiunsero i racconti di mia madre, Maria, di mio padre Ugo, e di Sebastiano e Lucia, miei fratello e sorella.
“Ave Maria grazia plena fai che non suoni la sirena, fai che non vengano gli aeroplani, facci dormire fino a domani”. Questa preghiera insolita era stata coniata forse da alcuni studenti per esorcizzare i bombardamenti che ormai erano diventati molto frequenti. Io, bambino di 3 anni e mezzo, la sentivo recitare la sera in modo scherzoso da mio fratello che aveva 11 anni.
Erano i primi di agosto del 1943: gli Alleati avevano conquistato la Sicilia; le truppe italo tedesche risalivano lo “Stivale”; il Fascismo era caduto il 25 luglio ma la “guerra continua”, come aveva dichiarato il generale Pietro Badoglio che aveva preso il posto di Mussolini alla guida del governo.
Vivevo a Barletta e la mia famiglia apparteneva a un ceto che a quei tempi veniva considerato medio-borghese, quasi benestante. Mio padre, con due lauree, era dirigente al Comune, mia madre era maestra elementare. Potevamo permetterci una Fiat 500 “Topolino” ordinata nel maggio del 1940 – costo 9.000 Lire – ma che non ci venne mai consegnata a causa dell’entrata in guerra dell’Italia avvenuta il mese dopo.
Mio padre col grado di tenente di complemento, fu mandato in Jugoslavia; mia madre continuò a insegnare, ma riuscì a evitare le adunate delle maestre fasciste del sabato, grazie a un certificato medico rilasciatole da un anziano dottore che dopo la guerra risultò essere stato membro del partito socialista clandestino.
Dopo la conquista – o meglio liberazione – della Sicilia, gli Alleati dettero inizio ai bombardamenti terroristici su tutta l’Italia allo scopo di indebolire le truppe italotedesche e costringere il governo Badoglio alla resa. Anche la Puglia fu duramente colpita: ricordo ancora i lugubri ululati delle sirene d’allarme seguite dalle fughe verso il rifugio posto nel palazzo di fronte, sede della Banca d’Italia.
Barletta, pur avendo obiettivi militari, non fu mai colpita dalle bombe; lo fu invece Trani ad appena 11 chilometri di distanza, dove morirono centinaia di persone. Rimase intatta la bellissima cattedrale romanica costruita nel 1099. Dopo la guerra si seppe che l’obiettivo dei B19 americani “Liberador” sarebbe stato Barletta e che per errore venne colpita la “pacifica” Trani.
Ricordo che dal terrazzo di casa assistemmo a quel bombardamento avvenuto di sera: si vedevano benissimo i bagliori delle esplosioni che mi apparivano come delle lune incandescenti che scoppiavano, accompagnate dai boati e dal ronzio degli aerei, le luci dei bengala che sembravano stelle cadenti. Non capivo che cosa stesse accadendo veramente e mia madre cercò di tranquillizzarmi dicendo che erano esplosi per sbaglio dei fuochi artificiali.
Quella estate la Puglia fu martellata da continui bombardamenti. Il 28 maggio venne colpita Foggia – importante nodo ferroviario e con un grande aeroporto militare – e i morti furono 300; le bombe colpirono poi Bari, Lecce, Grottaglie, Taranto e tornarono a nord della regione. Il 14 luglio sul Gargano venne preso di mira anche il piccolo paese di Sannicandro Garganico dove morirono 20 persone: l’unico “obiettivo” militare era la caserma dei carabinieri con un brigadiere e due sottoposti. Giorni dopo a Foggia le bombe uccisero 9200 persone. Quell’estate in Puglia ci furono più di 20 mila morti per i bombardamenti alleati.
I parenti che vivevano nei pressi di Bari consigliarono mia madre di lasciare con i bambini Barletta, almeno per il periodo estivo. E così Maria decise di trasferirsi a Tolentino a pochi chilometri da Ancona. Ugo che si trovava in Jugoslava, veniva mandato periodicamente dal suo comando nel capoluogo marchigiano, per ritirare dei materiali militari. Proprio in agosto si sarebbe fermato per 15 giorni. Fu scelta quella cittadina perché era una nota località termale nella quale i miei erano già stati e poi perché non rappresentava un obiettivo militare.
Prendemmo un comodo e semivuoto treno per Ancona occupando uno scompartimento di prima classe: a quei tempi gli insegnanti godevano di uno sconto del 70% valevole anche per i familiari. Il convoglio viaggiò regolarmente verso Foggia: col naso attaccato al finestrino, osservavo distese di campi di grano, di frutteti; automezzi militari che procedevano in colonna lungo la statale Adriatica. “Sono i tedeschi che tornano a casa” disse mia madre quando le chiesi perché portavano sulle fiancate una croce nera.
A pochi chilometri da Foggia il treno si fermò di colpo; poi ripartì e proseguì lentamente. Il paesaggio cambiò: vidi una locomotiva ancora fumante rovesciata sui binari contorti che ci fiancheggiavano, carrozze e vagoni merci sventrati; casse e bagagli sparsi intorno.
Superammo lentamente la stazione, ridotta in macerie, per fermarci più in là a quella di un paesino. Ricordo che lo spettacolo mi creò un senso di angoscia e nello stesso tempo di estrema curiosità. Incrociammo un treno ospedale e chiesi a mia madre spiegazioni sulle croci rosse che portava sulle fiancate e perché i passeggeri fossero distesi sui “lettini”. Mi spiegò che erano soldati feriti. Continuai a tempestarla di domande e qualche anno dopo mi disse che quel giorno con i tanti “perché” ero riuscito a metterla in imbarazzo: non sapeva più come descrivere la guerra a un bimbo di 3 anni e mezzo.
Ad Ancona il babbo ci attendeva alla stazione – ancora intatta – e proseguimmo in autobus verso Tolentino. Per la famiglia fu una vera vacanza trascorsa nell’albergo delle terme. Due settimane dopo Ugo ripartì per la Jugoslavia: ricordo l’abbraccio con mia madre che piangeva e la figura di mio padre in divisa con la fondina della rivoltella d’ordinanza attaccata alla cintura.
Lo rivedemmo dopo 15 mesi e per tutto quel tempo non avemmo sue notizie. Non potemmo tornare a Barletta perché le comunicazioni erano interrotte e poi dopo l’8 settembre – giorno dell’armistizio con gli alleati – fummo costretti a restare a Tolentino. Da villeggianti eravamo diventati sfollati. La Linea Gustav ci aveva separati dal Sud dell’Italia: al di là c’era il governo Badoglio, al di qua tedeschi e fascisti.
La guerra arrivò anche a Tolentino con gli attacchi aerei, le azioni dei partigiani e le rappresaglie dei tedeschi. Mia madre entrò a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) clandestino, mio padre – in Jugoslavia – non ubbidì all’ordine di un generale italiano di arrendersi ai tedeschi e passò con i partigiani di Tito per poi unirsi con i militari compatrioti della divisione Garibaldi che combatteva contro i nazisti.
Di Tolentino ricordo bene una mattina quando con mio fratello andavamo a prendere il latte da un contadino e mentre attraversavamo un ponte, arrivarono alcuni aerei inglesi che incominciarono a mitragliare. Sebastiano mi spinse a terra facendomi da scudo mentre i colpi delle mitragliatrici ci rimbalzavano intorno. Ero terrorizzato e per distrarmi mio fratello con molta calma mi descrisse gli aerei: “Sono Spitfire e ci vengono a liberare”.
Fummo liberati dai partigiani nel novembre del ’44 e durante la sfilata lungo il corso del Paese mia madre pronunciò verso di noi figli una frase: “Questo è un bellissimo giorno, non dimenticatelo mai!”.
Una settimana prima mio padre era sbarcato a Bari proveniente con un vecchio motopeschereccio dalla Jugoslavia. In seguito mi raccontò che al porto lo accolse un maggiore italiano che lo rimproverò aspramente dicendogli: “Lei tenente si deve vergognare indossando una divisa così malridotta”.
“Avrei voluto sparargli”, mi confessò.
- Ettore Vittorini, autore di questo articolo, è giornalista da sempre. Per trent’anni ha lavorato al Corriere della Sera.
- Nella foto di apertura, Foggia bombardata nel 1943. Credit foto: Bundesarchiv_N_1603_Bild-213,_Palermo,_zerstörte_Häuser.jpg Foggia e Anzio-Pubblico Dominio.