Scrive Elias Canetti di Hermann Broch (1986-1951): “Non di rado, nelle sue frettolose camminate, Broch veniva a trovarci nella Ferdinandstraße. Mi pareva di vedere in lui un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare…”. Di certo, neanche in disgrazia il passo di Broch avrebbe potuto esser confuso con quello da burattino a molla, da despota destinato alle tenebre del delirio, del vecchio aristocratico von Pasenow, singolare figura di prussiano che cammina in modo marziale per Berlino, e sul cui ritmico e antipatico colpo di bastone (antipatico perché contrasta per energia con l’implosione di un personaggio in via di estinzione mentale e sociale?), si apre I sonnambuli, opera grande e grandiosa che Adelphi sta ripubblicando nella versione di Ada Vigliani.
Dopo 1888. Pasenow o il romanticismo, è in questi giorni in libreria 1903. Esch o l’anarchia, con due testi di Canetti per commento; a compimento del primo volume, c’era invece il limpido saggio di Kundera su Broch, tratto da L’arte del romanzo. Concluderà il tutto la riedizione di 1918. Huguenau o il realismo, la cui mole, per non dire della complessa struttura, eguaglia da sola quella degli altri due libri.
Kundera appunto; che ricorda la sorte di Hermann Broch dalle ali-mozze, dimenticato e riscoperto soltanto dopo morto: arrestato e imprigionato nel 1938, lascia l’Austria per l’esilio americano sette anni dopo aver pubblicato il suo capolavoro (uno dei suoi capolavori). La Germania di Hitler ha ormai distrutto la vita culturale tedesca, ogni idea – si direbbe oggi – di società civile, non esiste più il pubblico a cui lo scrittore si rivolge.
Restano così disperse al feroce vento della Storia le pagine de I sonnambuli, tre romanzi ambientati a 15 anni di distanza l’uno dall’altro, indipendenti e insieme uniti da una decisa scelta di poetica, da un tema forte – per semplificare: la degenerazione dei valori – e da pochi personaggi in comune che fanno capolino in modo apparentemente casuale.
Ma ecco entrare in scena Pasenow figlio, l’ufficiale Joachim, che ha un altro passo, almeno quando ha al braccio Ruzena, boema conosciuta una sera al casino. Broch descrive “…due sonnambuli, che quasi in sogno già salivano insieme la scala buia” andando verso il letto, dove lui “annega” dentro di lei.
Non a caso subito dopo si racconta della morte in duello di Helmuth, fratello maggiore di Joachim: perdita della fede, senso di morte, imbarazzante voluttà assediano l’ufficiale, richiamato dal padre indementito a succedergli in campagna, nei panni di “signore feudale”, mentre la società circostante sta cominciando a farsi gli affari (veri affari) suoi – siamo a fine Ottocento (alla fine di un mondo?), regna Guglielmo II di Germania e Prussia, il terzo e ultimo imperatore tedesco, il nono e ultimo re di Prussia.
Joachim conduce la sua esistenza di uomo (e quella di personaggio) proteggendosi (o coprendosi quasi per pudore) con la marziale uniforme di tenente – I sonnambuli presentano una selva di simboli, una realtà letta attraverso i simboli, fatta di uomini e di donne simbolo, cui i protagonisti si rivolgono con toccante disperazione o ottusa fiducia: è l’uniforme il feticcio affettivo che tiene a galla Joachim e lo scherma dalla (presunta) vita vera, anche se non crede più in Dio, anche se a mala pena sussistono per lui, ridotti a nostalgia di epoche andate, il valore sentimentale di un buon nome e dell’onore. Scrive Kundera: “Tutti i personaggi di Broch sono ipnotizzati da forze sotterranee e agiscono (come sonnambuli) senza poter spiegare razionalmente perché fanno ciò che fanno, perché dicono ciò che dicono”.
1903. Esch o l’anarchia. Cambia scena, si dirada l’atmosfera di buio e psicosi che avvolge il destino dei Pasenow, non muta il tema della “degenerazione dei valori” e della “sonnambolica lucidità” dei personaggi – l’ossimoro è con ogni buona evidenza la figura retorica principe della nostra contemporaneità – qui alle prese col clima acceso e le tensioni sociali delle metropoli di inizio secolo, mentre le lotte sindacali portano alla prigione lo storpio Martin – un altro passo ancora per chi cammina tra i sonnambuli, stavolta un passo di zoppo.
Dunque. August Esch, trentenne contabile – piccolo o medio borghese, dunque non il solito alto borghese – è impiegato in una compagnia di navigazione, litiga con il principale e viene cacciato. Lascia così la sede di Colonia per quella di Mannheim, maledicendo tra l’altro il presidente della società Bertrand – figura chiave del primo romanzo, sorta di uomo nuovo, che mina le convinzioni anche amorose di uno spaventato (quasi paranoico?) Joachim.
A Mannheim, Esch conduce una vita noiosa, diviso tra il ricordo di un’amica locandiera, mamma Hentjen, espressione di una perduta routine matriarcale, e i desideri carnali per la nuova padrona di casa. Il fascino della libertà gli viene incontro – non è vero che Broch non conosce le folgorazioni tolstojane, le consuma piuttosto nel fuoco lento dell’ossessione – in uno spettacolo volgare, complice Ilona, ragazza ungherese attorno a cui si infilzano i coltelli di un lanciatore da circo. Il presagio di morte contenuto nelle lame taglienti – Freud avrebbe molto da dire (Broch è anche Freud) – si mescola a qualcos’altro, all’attrazione sensuale, al desiderio di un’altra vita.
Il senso di solitudine e di ingiustizia, di insignificanza e di inutilità, assediano Esch che torna a Colonia per un’affare: allestire un pruriginoso show di donne (false) lottatrici. Incomincia intanto la storia – possiamo dire d’amore? – con la matura mamma Hentjen… Ma che cosa è l’amore se non “il mistero dell’unità”, un fine inattingibile che può nascere soltanto da una “terribile esasperazione dell’estraneità” (dal discorso del giovane omosessuale Harry a Esch, rispecchiante una dichiarazione d’amore di Bertrand nel primo volume).
L’impressione del lettore è che Esch vada a tentoni, di avventura in avventura, in una vorticosa confusione che pervade i suoi pensieri, mina le sue azioni, infrange le sue cangianti certezze. Il suo è il “fanatismo di un’epoca senza Dio” (Kundera). Esch trova un ubi consistam soltanto in una sorte di permanente ribellione: è il sonnambolico ribelle, accostato in una pagina significativa a Lutero, così come Pasenow era l’incarnazione dell’ultima stagione del romanticismo. Broch nel farlo contabile ha trovato per Esch una sorta di beffarda uniforme in panni civili: si tratta di un lavoro dove ogni cifra (ogni cosa) va al suo posto e “lo sguardo non si smarrisce” – nel decimo capitolo del terzo romanzo, si può leggere una parodistica lode dell’uomo che felicemente, in attivo o in perdita, vive di segni precisi sulla carta dei giorni, campa di calcoli esatti, almeno finché si illude di poter irregimentare nelle pagine di un giornale, così come nei suoi libri mastri, la realtà inaffidabile del mondo per di più in tempo di guerra.
Comunque. Nota Kundera, cui è opportuno dare retta poiché vede benissimo tra le pagine di un autore che ama e che lo ha largamente influenzato, nota Kundera che Broch fa parte del modernismo, ma a differenza di altri grandi non affossa la forma-romanzo. Crede a ragione che possa rappresentare la realtà nel suo insieme, includendovi poesia e filosofia (il progetto è portato a compimento in 1918. Huguenau o il realismo). È un tutt’uno ancora possibile di contro a una società in cui domina la parcellizzazione eccessiva e quasi parodistica del sapere e del lavoro.
Ma ora attendiamo di leggere nella nuova edizione anche Huguenau, anzi lo apriamo nel vecchio volume Einaudi (1960), per vedere completata l’ambiziosa architettura di un romanzo polistorico (così Broch, Sui presupposti del romanzo I Sonnambuli, testo teorico del 1931), e per ammirare la strategia polifonica di cui lo scrittore austriaco si è servito per rappresentare il mondo e il suo sapere – i sistemi di valori parziali e disgregati – a partire dall’esplorazione delle “componenti irrazionali della vita”… Sembra un affare complicato, ma Hermann Broch, industriale senza vocazione, matematico mancato, aspirante filosofo, scrittore sfortunato, sa fare i giochi di prestigio dei più grandi, poiché ne condivide le ali e perché è capace di vivere e assimilare la realtà senza tregua – come nota Canetti in Inizio di un contrasto – nella “nudità del (suo) respiro”.
Torneremo su Broch, perché – assente dal 1982, quando uscì per Rusconi – è riapparso per i tipi di Elliot anche Sortilegio, ovvero uno delle due grandi opere finali dell’austriaco – verrebbe da dire terminali poiché chiudono la partita con una tradizione di romanzo che gli inchioda accanto i nomi di Musil e Mann -, Sortilegio da leggere in parallelo o a specchio con La morte di Virgilio.