Come identificarsi in Montale, il poeta nazionale che somigliava a un gufo dall’espressione malevola? Ma neppure era agevole in quei primi anni Settanta – per chi da adolescente cercava nei poeti un minimo di romantico fisico di ruolo – rispecchiarsi in un altro genovese, Edoardo Sanguineti, magro come uno scheletro, sdentato e angoloso in viso, occhi sporgenti alla Marty Feldman (era un comico dei tempi), abito da lumpen impiegato.
D’accordo, Montale era un gigante, ma era pure di destra, fastidiosamente qualunquista quando in Satura accenna a scioperi generali e inequivocabili botti di fine ’68. Così, da ragazzo, tifavo per forza Sanguineti: lui era comunque il nuovo, l’avanguardia ideologica e di sprezzante ironia che però cercava di tirarsi dietro pure tutto il proletariato e, se non ce la faceva, rileggeva Gramsci e frenava un po’ – in Italia, almeno, il poeta allora era lui, Sanguineti, altrove c’erano i più colorati e giovanili beat.
Cercai di capirlo fin da quel testo dai versi lungi e zigzaganti che, dopo quello di Franco Fortini, trovai raccolto – come vidimato da un notaio che certificava l’ultima poesia possibile – sul Guglielmino, l’antologia letteraria del Novecento più usata allora a scuola.
Live su Dante
Sanguineti lo vidi di persona per la prima volta alla fine degli anni Settanta, una sera, al coro di San Maurizio a Milano – luogo sacro inadatto a un laico funzionario-fantasma del partito comunista dell’avanguardia (ossimoro, e in effetti la tessera credo che non la prese mai). Tenne una lezione su Dante, e mi impressionò, più che per l’eloquio, perché era evidente la vastità dei suoi mescolati saperi – quelli del professore universitario e quelli dello scrittore. Che poi si tenevano insieme, si puntellavano e rilanciavano a vicenda: dal Ghibellin fuggiasco a Guido Gozzano, dall’ambizioso poema Laborintus (1956) – dissonante partitura di culture esplose e recuperate nella veglia dell’ultimo degli intellettuali – fino alle avventure piccolo borghesi e quasi crepuscolari di Postkarten (1978), che lo riavvicinavano quasi beffardamente al gufo malevolo Montale, e però non aprivano giammai alle visioni stroboscopiche degli orfici innamorati, la nuova tribù che sarebbe arrivata sulla scena poetica.
Edoardo Sanguineti, nato a Genova l’8 dicembre 1930 e lì morto a 79 anni, il 14 maggio 2010, manca da più di un decennio che, da marxista iperrealista (e parlamentare comunista) qual è stato, gli sarebbe risultato forse socialmente incomprensibile, ma che avrebbe affrontato con il rigoroso e ingrigito senso di responsabilità in cui spesso amava imbrigliare i suoi estri.
Comunque. Ci piace ricordarlo oggi per quei bellissimi libri di poesia quadrati e color giallo vivo della Feltrinelli – introvabili anche sulle bancarelle – dove scrisse le sue poesie migliori di miglior poeta del Gruppo ’63 e poi quelle di sornione e coltissimo “gatto lupesco” che coniugava -etipi e -otipi con tutti gli -ismi del mondo e dove, per caso, ebbe compagno di collana Vittorio Reta, ragazzo suicida di un’avanguardia non garantita, nel cui palazzo di famiglia Sanguineti visse per caso a Genova – ma questa è un’altra storia, la racconteremo un’altra volta.
Una lettura ingenua
La mia edizione della Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino (Principato, aprile 1971) non era stata ancora ampliata (come la terza) a Giudici e Zanzotto, e vi figurava come un monolite liquido caduto dallo spazio la poesia Oh, dove (sulla spiaggia? dove?), tratta da Purgatorio dell’Inferno (Feltrinelli, 1964): un testo facile, tuttavia, altro che Laborintus, ben scelto quindi per avvicinare a un novissimo uno studente asino qualsiasi.
Dunque. Mi fu subito chiaro che il destinatario della poesia era una donna e trovai perciò illuminata di luce propria e amorosa – dopo lo stentato rafting su una cinquantina di smisurati versi – la chiusa: con un amore come questo, noi:/ un giorno (noi)… / (noi) dobbiamo morire:
Non capii però che quel lungo travaglio per arrivarci, con uso vasto di francese, flashes continui di interno/esterno, ripetizioni e dilazioni di parole, dovuti alle intromissioni del reale e del ricordo, comprendenti pure il momento (che mi parve un po’ sfigato) in cui a Grandville il poeta balla Pepito… Insomma: questo corpo a corpo formale, rallentato da una serie incredibile di parentesi e rilanciato da un’altrettanto nutrita raffica di due punti tattici, serviva a evitare proprio quello che in fondo cercavo io, ossia “… il cedimento sentimentale” (A. Balduini).
Molto bene lo stesso: quel tu insistito di Sanguineti, rivolto, come scopersi dopo, a Luciana, la compagna di una vita, mi era decisamente più congeniale del tu ghiacciato del gufo Montale a donne che aveva per lo più impagliato. Per cui la mia lettura di Sanguineti si aperse alla fiducia e proseguì immediatamente in biblioteca, con il desiderio presto manifestatosi che non finissero mai i due punti tattici del poeta, appesi su sempre nuove avventure oppure direttamente sul vuoto. Chapeau.
Sanguineti servito alla Kaur
Andando a frugare sui social network per vedere se vi è rimasto impigliato qualcosa di Edoardo Sanguineti tra un bacio perugina di Rupi Kaur o una poesia flash di Giò Evan, scopro – su Tumblr, che è un luogo virtuale particolarmente sentenzioso e sfigato – che compaiono spesso gli excerpta “d’amore” di un testo di Corollario (Feltrinelli, 1997). I primi tre versi (chiusi arbitrariamente col punto e non con il due punti), oppure solo il primo verso, mentre in altri casi c’è il testo completo della poesia che è la sesta della raccolta. Non credo che tanta popolarità derivi dalla citazione rock in Shalimar Hotel di El Muniria, il progetto di Emidio Clementi e Massimo Carrozzi (2003).
Se mi stacco da te, mi strappo tutto:
ma il mio meglio (o il mio peggio)
ti rimane attaccato, appiccicoso, come un miele, una colla, un olio denso:
La (peraltro bellissima) poesia che qui linko per intero finisce con con quel “vivo ancora per te, se vivo ancora:”, che è spesso a sua volta ripreso in solitudine.
Cercavo prevenuto la citazione farlocca per innamorati, e scopro che in effetti Sanguineti ci si presta bene, soprattutto con l’aiuto delle forbici, ma su Tumblr trovo anche post raffinati: le preziose fotografie di Sanguineti scattate da Mario Dondero – quelle con i bambini e le bolle di sapone – e ripasso i molto citati virtuosismi dell’Alfabeto apocalittico (1982) illustrato da Enrico Baj.
Sul più colto Instagram prevalgono naturalmente le immagini di Edoardo Sanguineti e le riproduzioni delle pagine di testo dei diversi libri: il testo d’amore appiccicoso (pure in una bella traduzione inglese) e l’Alfabeto restano comunque negli highlights.
Il gioco del ritaglio, suggerito dai social, mi riporta a sfogliare i volumetti gialli di Feltrinelli con un occhio diverso e a ridurre il poeta di Laborintus all’“intenerito sentimentale” (ed erotico, certo, c’è erotismo anche acrobatico in Sanguineti), quello che in fondo cercavo da ragazzo sul Guglielmino e che sarebbe stato deprecato da A. Balduini.
Per i credit: non sono riuscito a trovare quello della foto di apertura. Contattateci (e nel caso rimuoviamo le foto)