Ci fu un tempo neanche tanto lontano in cui i più raffinati pensatori della sinistra ritenevano impossibile l’esercizio del pensiero senza l’ausilio di Heidegger. Non solo. Qualcuno trovava imprescindibile pure Carl Schmitt. Erano gli anni della grande confusione post-modernista, il trionfo di quel pensiero debole che solo pochi coraggiosi come Augusto Viano ebbero l’ardire di definire flebile. La tecnica – responsabile di ridurre l’uomo a mero funzionario – era il nemico comune, l’America il luogo mentale e fisico dove la tecnica si era totalmente impadronita dell’umano. (Davvero buffo riconoscere come le menti più raffinate della Germania nazista odiassero l’Unione Sovietica tanto quanto gli Stati Uniti d’America).
Forse sarebbe più onesto affermare che tra la terza via di Clinton, le sperimentazioni blairiane e il crollo dell’Unione Sovietica, il “mondo della sinistra” (chiamiamolo così) non è stato più capace di offrire una rappresentazione del mondo, oltre che un’idea di mondo in grado di far presagire l’esistenza di un progetto di mondo dotato di senso e significato. No, nessuna rappresentazione, nessuna idea, nessun progetto.
Nel frattempo la tecnica divenuta digitale stravolgeva le normali coordinate che legano la produzione al consumo, i capitalisti ai proletari e il capitale al lavoro. Nel breve volgere di pochi anni sparirono sia i padroni che i lavoratori. Quando una fabbrica chiudeva, chi restava senza lavoro scopriva quanto fosse difficile manifestare la propria rabbia contro un consiglio d’amministrazione composto tra gli altri dal Fondo Pensione dei Lavoratori di Paperopoli, basato per di più a 7.000 kilometri di distanza. Il padrone: che fine ha fatto il padrone? Smaterializzato, sparito, inghiottito nei gorghi della turbofinanza. Poi vennero i licenziamenti via mail e prim’ancora il trionfo della Gig economy, che i meno ipocriti hanno il coraggio di chiamare con il suo vero nome: economia dei lavoretti.
In tanto disastro, la nota positiva è che qualcuno iniziò a levare lo stigma dalla parola “tecnica”. Tra tutti si distingue Maurizio Ferraris (“la tecnologia deve essere considerata una parte dell’antropologia, e, reciprocamente, l’antropologia è l’altro volto della tecnologia”) per la sistematicità della sua ricerca sulla documentalità.
Nel suo ultimo saggio (Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, 2021) Ferraris osserva come il web sia il più grande apparato di registrazione che l’umanità abbia mai sviluppato. Sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, “il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Il numero di segni disponibile per la manipolazione e la combinazione diviene incommensurabilmente più elevato che in qualunque cultura precedente, e questo cambia tutto”.
Ma è Aldo Schiavone, che già in passato ha avuto il coraggio di parlare esplicitamente di speranza e di prospettiva (Progresso, Il Mulino, 2020) a compiere un ulteriore passo in avanti e rendere ancora più esplicito il legame tra tecnica e umanità. Nel suo saggio L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria (Il Mulino, 2022) e successivamente con il pamphlet Sinistra! (Einaudi, 2023) Schiavone argomenta come la nostra epoca si distingue da tutte le altre perché vede la nascita della prima civiltà planetaria della storia. L’Occidente ha “mondializzato il mondo” (passatemi il bisticcio) trasformandolo attraverso i propri caratteri dominanti: la tecnica e il capitale. E in modo sia pur assai più contrastato anche con il diritto e la democrazia. La tesi di Schiavone è che non siamo alla fine, bensì all’inizio. Con buona pace di Spengler e di tutti i profeti di sventura, la mondializzazione dell’Occidente è l’avvio di un “percorso problematico, esposto alla catastrofe, ma anche ricco di straordinarie potenzialità: la vicenda di un umano ormai quasi del tutto affrancato dalla dipendenza dalla natura sul punto di diventare completamente padrone del proprio destino”. La tecnica al servizio di ciò che è eminentemente umano. La tecnica strumento-condizione per liberare tutta l’umanità. Non una fine, ma un inizio: l’Occidente che si fa insieme di valori comuni e condivisi.
Aldo Schiavone, storico del diritto romano, ha tra le altre cose anche diretto l’Istituto Gramsci. Tuttavia l’ammirazione che nutre per il pensiero di Marx non gli impedisce di riconoscerne i limiti. La lotta di classe non è l’eterno motore della storia per la semplice ragione che l’operaio-massa ha cessato di esistere e insieme a lui il concetto stesso di classe operaia. Un fenomeno che lo sviluppo delle forze produttive digitali ha accelerato in modo incredibile. Sfruttamento, ingiustizie sociali e diseguaglianze non per questo sono scomparsi. Hanno solo acquisito un volto nuovo. Il capitalismo ha vinto in ogni parte del luogo terraqueo, prosegue Schiavone. L’obiettivo non è più quello di vagheggiare società socialiste, quanto di perseguire l’ideale dell’eguaglianza dei diritti e delle opportunità. Tesi che il pamphlet Sinistra! ripropone con ancor maggior forza e asciuttezza.
È forse di qualche interesse notare che L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria compare quando, tramontato il fascino del post-moderno, sopito l’implicito “liberi tutti” che il pensiero debole presupponeva (“Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”) insieme a schwa e all’asterisco per evitare l’uso del maschile indifferenziato, la donna e l’uomo bianco della sinistra occidentale hanno tirato in ballo una nuova categoria. (Non poi così nuova. Ma pazienza: le idee costano). Anche a causa della semplificazione che i fatti d’Ucraina impongono (scrivo i “fatti” come un tempo a sinistra si parlava con pudica ipocrisia di “fatti d’Ungheria” in luogo di invasione sovietica). La storia ha questo di divertente. A volte si prende il lusso di cancellare nuances e sfumature, butta nel cestino tutta la scala dei grigi e ti consegna una magnifica palette fatta di due soli non colori: il bianco e il nero. Sicché ti tocca stare di qua o di là, oppure fare la parte del fesso nello schiaffo del soldato.
Messi ulteriormente in crisi dai “fatti d’Ucraina”, la donna e l’uomo bianco della sinistra occidentale hanno tirato in ballo una nuova categoria: il senso di colpa. (Che tanto nuova non è, ma neppure la sinistra occidentale lo è). Dalle pagine dei giornali che sempre meno persone leggono, la donna e l’uomo bianco della sinistra occidentale ci ricordano che noi – donne e uomini occidentali – siamo un’esigua minoranza. Un sesto, un settimo dell’umanità. Che altrove (mai capito dove sia questo altrove) neppure sanno di noi. Dei nostri vezzi. Dei nostri capricci. Delle nostre idee. Tuttavia, nonostante noi siamo una parte minoritaria dell’umanità, è colpa nostra se il pianeta è malato; è colpa nostra se i migranti migrano; è colpa nostra se non li accogliamo; è colpa nostra perché abbiamo inventato il capitalismo il colonialismo, l’imperialismo, la volontà di potenza, la tecnica che uccide la poesia, il sogno, l’irrazionale, (in una parola: l’umano) Per non parlare della nostra presunzione euro-centrica di ritenere che i nostri valori – democrazia, diritto, tolleranza, rispetto delle minoranze – siano valori assoluti.
L’altro giorno in Uganda è stata votata una nuova legge. Punisce gli omosessuali con pene che vanno da dieci anni di carcere all’ergastolo. In alcuni casi persino la pena di morte. La sola cosa divertente di una notizia così spaventosa è il puntuale commento della donna e dell’uomo bianco della sinistra occidentale. “Come possiamo difendere i diritti della comunità lgbt+ senza scadere in una contrapposizione controproducente tra nord e sud del mondo o in un giudizio morale dal sapore neocoloniale? In ogni caso è difficile restare indifferenti quando leggi repressive come quella ugandese calpestano diritti umani inalienabili. Si tratta evidentemente di uno dei temi più complicati del rapporto tra Europa e Africa”, si chiede Pierre Haski di France Inter. (L’articolo completo lo potete leggere qui).
Domanda delle cento ghinee: affermare che in alcuni luoghi della Terra lo sviluppo civile, sociale e culturale è spaventosamente arretrato è forse un “giudizio morale dal sapore neocoloniale”? Affermare che alcuni paesi se non continenti vivono l’infanzia dell’umanità è un “giudizio morale dal sapore neocoloniale”? Sono giusto alla conclusione che la donna e l’uomo bianco della sinistra occidentale soffrano di logofobia. Hanno paura delle parole quanto e forse persino più delle immagini che turbano i conservatori (eufemismo) in Florida. Che sia giunta l’ora di un corso accelerato? Non “fatti di Ucraina”, ma invasione, sterminio, crimini contro l’umanità. Non “diversità africana”, ma arretratezza, sottosviluppo, inciviltà.
(Una volta chiesi a un amico più furbo di me – ci vuole poco – perché bestemmiasse il dio dei cristiani e non quello dell’Islam. Perché i preti non mi mozzano la testa, rispose).
Nella foto, in Ungheria nel 1956