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Piergiorgio Bellocchio e i suoi Quaderni, una storia rara

Primi giorni di aprile a Piacenza. Faccio un giro sul Pubblico Passeggio, qui lo chiamano il Facsal, versione locale dei Vaux hall Gardens creati a Londra all’inizio dell’Ottocento e subito copiati dappertutto nelle città del mondo. È un vialone lungo e largo pieno di platani a ridosso delle vecchie mura farnesiane, ci si porta a spasso il cane, ci giocano i bambini, skateboard, biciclette. In uno del palazzi anni sessanta che s’innalzano lungo il viale abitava Piergiorgio Bellocchio, “scrittore, critico letterario, fondatore dei Quaderni piacentini pubblicati dal 1962 al 1984, dice Wikipedia, punto di attrazione per la cultura e l’evoluzione del pensiero politico di sinistra in Italia. Viveva qui con la moglie Marisa. Fino a qualche anno fa capitava d’incontrarlo quando scendeva a fare la spesa” di personapreferiva le cose cucinate in casa “che almeno si sa cosa si mangiaQui sul Facsal ci si scambiava qualche parola, come qualche volta d’estate a Bobbio quando ci si incontrava la domenica mattina a prendere i giornali all’edicola.

In questa casa Piergiorgio Bellocchio è morto l’anno scorso, il 18 aprile 2022. Ha fatto in tempo, come è stato detto alla presentazione del volume che ho tra le mani, a rivedere le bozze corrette di questo suo ultimo libro, Diario del Novecento, pubblicato da Il Saggiatore nel maggio 2022. È una sorta di opera-testamento che raccoglie appunti di lettura, ritagli di giornale, foto, riflessioni sul linguaggio: una selezione di tutto ciò che riempiva i quaderni neri allineati dall’autore nella libreria di casa, appunti messi insieme per oltre quarant’anni in un disordine che mescolando alto e basso, partendo da fatterelli di cronaca per risalire alle grandi trasformazioni del nostro paese, aiuta a decifrare la trama, talvolta alquanto intricata, della storia del secolo scorso.

Nei suoi novant’anni di vita Bellocchio ha scritto otto libri. Uno solo di narrativa: i tre racconti di I piacevoli servi (Mondadori 1966). Tutte le altre sue (corpose) opere contengono saggi, critica letteraria, note di argomento storico-memorialistico, insomma sono quei volumi che nelle Biblioteche Pubbliche si trovano catalogati alla voce Letteratura e non nella Narrativa. Eppure hanno dei titoli proprio tanto “da romanzo: Dalla parte del torto (Einaudi 1989), Eventualmente (Rizzoli 1993), L’astuzia delle passioni (Rizzoli 1995), Oggetti smarriti (Baldini & Castoldi 1996) ovvero i libri fuori catalogo, introvabili, mandati al macero , Al di sotto della mischia (Scheiwiller), una critica nei confronti della sinistra istituzionale del potere, Un seme di umanità (Quodlibet 2019). Se siete appassionati di narrativa: non sono titoli da far venire l’acquolina in bocca? Il bello è che poi sono letture che non deludono affatto i romanzofili, perché Bellocchio, immune dai toni della critica cattedratica, ha usato, seducente, i grandi romanzi come strumento per interpretare la società e i suoi cambiamenti, per capire come funziona il mondo e come ci si deve stare. È riuscito, nel descrivere la trasformazione della vecchia borghesia del suo tempo nella nascente middle class riccastra ed esibizionista, a fondere il racconto con il saggio.

Un numero dei Quaderni piacentini

Mi vengono in  mente frammenti di frasi che gli avevo sentito direalla presentazione di un libro o di un film. Per esempio al suo amico Gianni D’Amo, professore al liceo: “per far capire ai ragazzi la filosofia tedesca, basta  leggere I Buddenbrook, dentro ci trovi Hegel, Shopenhauer, Wagner, Nietzsche, tradotti in vita”. O quando, a proposito della rubrica “I libri da non leggere” che usciva sui Quaderni piacentini, ricordava il clamoroso abbaglio di valutazione preso nell’aver bocciato Lolita di Nabokov.

Lettore vorace di romanzi (i Russi, i Francesi, i Tedeschi) in giovane età, col passare degli anni diceva di sentirsi sempre meno interessato alla scrittura d’invenzione (che bel modo di dire fiction), attratto, più che dalle invenzioni, dalle testimonianze personali e dirette, dal giornalismo di reportage e dall’autobiografia, e dunque preferendo scritture diaristiche, memorialistiche, storico-politiche.

Ho sempre pensato a Piergiorgio Bellocchio come a una persona “rara”: uno che per tutta la vita non è mai venuto meno alla passione per la letteratura rimanendo tuttavia intoccato dalla dilagante smania di pubblicare (dovevano essere gli editori a cercare lui), né alla sua convinzione politica, intransigente nel denunciarne le derive che non condivideva.

Grazia Cherchi, un ricordo di minimum fax

Ad affiancarlo nella ultraventennale avventura dei Quaderni piacentini, rivista bimestrale partita con duemila copie ciclostilate e arrivata nel ’68 a venderne dodicimila ormai rivestita di un alone leggendario, c’è sempre stata Grazia Cherchi (1937-1995). Scrittrice, giornalista, editor (ma allora si diceva “curatrice editoriale”). Di gusto tanto raffinato nell’usare la lama della sua penna per eliminare frasi e interi capitoli, e specialmente gli avverbi – detestava le parole in “mente”- dai manoscritti degli aspiranti scrittori, quanto trascurata e inadeguata alle ordinarie incombenze della vita quotidiana, le cure della casa, le fatture: le bollette dei pagamenti la mandavano in panico. Il suo libro Fatiche d’amore perdute (Longanesi 1993), ormai introvabile, è un romanzo di conversazioni in cui diversi amici che avevano animato i Quaderni piacentini si ritrovano dopo 30 anni, sotto falsa identità, in una villa di campagna per tentare di rispondere a domande fondamentali, tipo “c’è ancora speranza?…” . Una persona “speciale”, anche la Cherchi, bisognerebbe scrivere un pezzo solo su di lei. Intanto qui sul Facsal la primavera sta facendo il suo mestiere. Ancora una volta fa verdeggiare di foglie nuove i platani del viale, riempie il prato di margheritine bianche e di gialli fiori di tarassaco, i “denti di leone”. Tra i mattoni cotti delle mura cinquecentesche sbucano dei ciuffetti di fiorellini piccolissimi di colore celeste pallido che non so come si chiamano.

Credit per la foto di P. Bellocchio: courtesy ©vincenzocottinelli, milano 1995, tutti i diritti riservati

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