Nanni Moretti, come un pugile in clinch, quando è in difficoltà creativa rispolvera il suo più usato topos, il metafilm diaristico sotto forma di film nel film, e ripropone la storia di un regista “alla Moretti” che riflette – con il suo pubblico, perché poi, a dirla in soldoni, solo chi lo ama lo segue fino in fondo – riflette sul da farsi che diventa il “da girarsi”.
In difficoltà: ma sì, a tratti viene il dubbio che Nanni Moretti non sappia davvero più che cosa girare in un universo di comprovata ostilità alle sue idee e ai suoi ideali – ricordate, per esempio, quel mal riuscito casino che era Aprile? Forse è per questo che, stracco come un vecchio pugile, guarda sempre più spesso in macchina, salmodiando più lentamente del solito le battute, con la celebre cadenza “alla Moretti”, e accendendo gli occhi nei suoi tipici stupiti e sconcertati sorrisi, sotto il perdurante ciuffo dei capelli tinti piuttosto male.
Guarda che cosa il tempo – personale e storico – ha fatto di noi!, sembra pensare già all’inizio dei 77 minuti di Il sol dell’avvenire, quando dice “azione!” sostituendo con i dubbi di un quasi settantenne la spocchia sovversiva del ragazzo di Sogni d’oro (1981), il primo film da grande che gli aprì le porte di Venezia. Da Sogni d’oro preleva l’ansia del regista prima della ripresa, la sfottutitura etica del collega concorrente – qui se la prende con un giovane regista stile Gomorra&Co. su Netflix -, riaccarezza il famigerato sogno del musical con Silvio Orlando pasticcere trotzkista, e in pratica svende, come faceva un furioso Remo Remotti/Freud al mercato, tutti i cliché e i riti del Morettismo, dall’idiosincrasia per il sabot ai solitari calci al pallone, dalla pausa in piscina alle canzoni feticcio. Tra le citazioni visive – nella consueta povertà francescana -, ecco il dolly che si alza e ci allontana i personaggi, chiudendo la scena e rimpicciolendo solo per un attimo il set allestito per il film nel film insieme all’ego tracimante del regista. Chissà perché di Sogni d’oro ci viene sempre in mente la strepitosa sequenza di lui che se ne va, schifato, scagliando via il mozzicone di sigaretta.
Piccolo e necessario spoiler. Il sol dell’avvenire è un film che attraverso l’eventualità di un suicido ammicca, come il lancio dell’asciugamano sul ring, al “forse è meglio piantarla qui”. L’asciugamano, nel caso, sarebbe l’iconica coperta all’uncinetto, in cui imbozzolarsi per la visione rituale di film dal divano di casa. Ma poi Moretti conclude Il sol dell’avvenire con una commovente (per chi lo ama) parata finale dove esce dalla storia – sua e nostra, dalla storia d’Italia e dalla storia del pianeta – nel corrispettivo di un girotondo felliniano (Fellini è ipercitato, ma si riflette tra gli altri anche su Cassavetes e sui Taviani di San Michele aveva un gallo…). Il the end di Moretti è un’orgogliosa e festosa manifestazione “comunista” con cui vorrebbe forse redimere tutta la sua vita privata e politica, e in cui fa sfilare chi ha recitato con e per lui – si può già fare il gioco degli assenti: dai tempi di Sogni d’oro, per esempio, ci pare manchino Laura Morante e Tatti Sanguineti. Non importa davvero. Il vecchio pugile, a fine match, solleva i guantoni, e sorride ineffabile e bellissimo, sembra ancora giovane (e sovversivo) e ostenta di avere vinto.