Dostoevskij sosteneva che la verità non è mai verosimile e va quindi corretta con la menzogna. Così si legge a pag. 169 di L’armonia dei frutti bacati, il nuovo romanzo di Roberto Tiraboschi, edito da e/o.
Il consiglio del grande russo viene seguito alla lettera dall’autore misterioso del racconto Un pergolato di glicine bianco, che è la prima delle tre parti in cui è diviso il libro di Tiraboschi. La seconda è dedicata al lockdown (magistralmente!) e la terza… Ma scopritelo voi, magari leggendo in loco, a Milano, seduti in un pub dalle parti dell’Arco della Pace, o più borghesemente, al Biffi in zona Magenta, e incontrando i tre irrequieti protagonisti della storia, che nella metropoli si giocano vita, lavoro e amore – Milano, camminata in lungo e in largo, è il quarto protagonista, la giusta quinta per le loro fatiche.
Il tema, i temi principali del romanzo, sono la difficoltà di raggiungere un’identità adulta (o un’identità tout court); la dipendenza dagli altri, che può portare al tentativo di manipolarli per avere la loro attenzione o il loro affetto; la scoperta di una parte bacata di sé, quasi fosse un marchio di fabbrica, che a volte aiuta, invece di portare alla rovina (è forse la crepa della tazza attraverso cui passa la luce, secondo il verso di Leonard Cohen?).
I personaggi. Sabrina, twenty something, viene da Gorizia, città un tempo divisa in due come Berlino: si sente uno “scombuglio” – così la chiama la mamma in quanto è uno scombinato garbuglio – ed aspira a chissà che, mentre fa la barista e si sbatte in una galleria d’arte. La sua coetanea e coinquilina, Milena, è scostante e misteriosa, vive di oscuri presagi e sogna le luci della ribalta a teatro. Guglielmo, più grande delle due, è invece un piccolo guru, un coach che si ingegna ad aiutare le persone a vivere positivo, e perde (forse) la testa per Milena.
Tutta la vicenda è solidamente inchiodata sui forse e pure sui se, oltre che sulle bugie già nominate, sul maquillage della realtà che al momento evita lo sprofondo della delusione o della depressione, ma poi impedisce di capirsi l’un l’altro.
Comunque. Conosco Roberto Tiraboschi come sceneggiatore per il cinema – guarda caso, ricordo una pellicola milanese scritta con Silvio Soldini (L’aria serena dell’ovest), che narrava di destini incrociati – e poi l’ho letto come autore di un fortunato ciclo di romanzi sulla nascita di Venezia, inaugurato da La pietra degli occhi – rammento che me lo aveva consigliato un grande scrittore molto veneziano, Alberto Ongaro; più recentemente ho notato Tiraboschi in finale al premio Bancarella con Il Rospo e la badessa dove mescola, di nuovo in laguna, nell’anno di grazia 1172, fatti storici e attitudine noir con un aggancio alla nostra attualità. Ciò per dire che lo scrittore bergamasco (ma romano di stanza e veneziano d’adozione) è capace di condurre un’abile partita con gli ingredienti del buon vecchio romanzo, muovendosi con mestiere e con giustificate ambizioni tra i potenziali best seller più o meno di consumo.
Sono tutti solidi titoli, quelli di Tiraboschi, ma ammetto un debole per questo L’armonia dei frutti bacati, romanzo di suspense esistenziale che, giocando tutto sul labile confine tra essere e apparire, può permettersi di farci trovare su un comodino una copia de La trilogia di New York di Paul Auster.
Tiraboschi sa bene come ingannare il lettore, tenendolo sempre in dubbio rispetto a quello che sta realmente succedendo nella storia del suo trio d’anime, e ottiene l’effetto mediante collaudati espedienti letterari – il fittizio racconto iniziale è il cuore di ogni successivo mistero. Per questo, gli perdoniamo il linguaggio a volte troppo grigio (informativo) per uno scrittore che dei personaggi vuol mettere a nudo “gli incubi più intimi, i pensieri inconfessabili, le fantasie ossessive” (pag. 198). Comunque: si legge d’un fiato.
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