Il primo maggio di qualche anno fa mentre mi trovavo in Puglia, a Barletta, dove avevo vissuto da piccolo con i miei, mi ricordai della prima volta che avevo sentito parlare della festa dei lavoratori. Ero ancora un bambino di sei o sette anni e la guerra era finita da poco. La sera di un 30 aprile mio padre nel darmi la buona notte mi disse: domani mattina dobbiamo svegliarci presto perché andremo a fare una lunga passeggiata a Montaltino. Si trattava di una piccola frazione distante pochi chilometri da Barletta.
La gita in realtà era un corteo con banda e bandiere rosse organizzato dalla sezione del Pci che mio padre aveva fondato alla fine del 1945 e da quella femminile organizzata poco dopo da mia madre: le prime iscritte erano state una sarta, una raccoglitrice di olive e una ex prostituta. Fu uno scandalo tra la borghesia della città e la “signora Vittorini” fu espulsa dal circolo Unione al quale era iscritta da prima della guerra, ma che non frequentava già da tempo.
Chiesi il perché di quella gita e mio padre mi spiegò che andavamo a togliere le catene che chiudevano l’accesso a Montaltino. Questa località era una masseria appartenente ai duchi Carcano circondata da un muro molto alto e l’unica via d’accesso era bloccata da una catena. All’interno un piccolo castello, una chiesetta, risalenti al XVII secolo e le abitazioni dei braccianti. Era un antico feudo rimasto tale nei rapporti tra padroni e lavoratori della terra. Il latifondo si estendeva sino a comprendere il territorio di Canne, famoso per la battaglia tra l’esercito romano e quello di Annibale.
L’obiettivo di quel corteo era soltanto simbolico. In realtà si trattava di aiutare i braccianti a riscattarsi dalle servitù padronali. La manifestazione partì dalla periferia della città, dal quartiere più povero dove viveva una gran parte dei braccianti in tuguri di una stanza con moglie, figli e di notte anche l’asino.
In testa al corteo c’era Giuseppe Di Vittorio con la moglie Anita, i miei genitori, i segretari di sezioni di Andria, Corato, Cerignola. Seguivano la banda e tanta gente, uomini, donne e ragazzi. Io camminavo speditamente col fazzoletto rosso intorno al collo tenendo la mano del giovane Domenico Borraccino. Su questo personaggio apro una parentesi: bracciante analfabeta di 18 anni, si era presentato alla sezione del Pci dicendo che voleva imparare a leggere e scrivere, ma non aveva il denaro per farlo. Mio padre e mia madre, maestra, decisero di diventare suoi insegnanti. Dopo un anno superò l’esame elementare e quello di ammissione alla scuola media. Poi proseguì gli studi sino alle scuole superiori. Nel 1970 fu eletto sindaco di Barletta per il Pci, due anni dopo deputato e successivamente senatore.
Mentre il corteo procedeva, aumentava il numero dei partecipanti. Passando davanti al santuario di Santa Maria dello Sterpeto (la patrona di Barletta) le campane della chiesa si misero a suonare con rintocchi dal suono mesto. Il parroco non aveva simpatia per i comunisti.
La città a quei tempi contava ottantamila abitanti. L’economia si basava sulla produzione di olio, vino e il grano del vicino Tavoliere. L’unica industria era la Cementeria della Montecatini che dava lavoro a un centinaio di operai. E poi c’era il porto che ospitava tanti motopescherecci che la sera rientravano carichi di pesce venduto a poco prezzo, perché non veniva inviato a Nord: i camion frigorifero erano quasi inesistenti. Nelle campagne non c’era la mezzadria e le case coloniche erano molto rare, pertanto i contadini lavoravano le terre dei padroni come manovali. A quei tempi erano pagati 150-200 lire a giornata, una paga misera anche allora.
Vivevano in città e ancora prima dell’alba si radunavano nella piazza del mercato in attesa dell’arrivo del “caporale” il quale faceva subito una selezione scartando quasi sempre coloro che sospettava essere comunisti. A quei tempi non si usavano i minibus per trasportarli al lavoro, ma dovevano andarci con i propri mezzi, bicicletta, asino o a piedi, lasciando le famiglie nei “bassi” di una sola stanza.
Quando andavo alla scuola elementare, un palazzo secentesco che oggi ospita il museo di Giuseppe De Nittis – pittore barlettano che divenne famoso a Parigi tra gli impressionisti – percorrevo una piazza con una fontana davanti alla quale una lunga fila di donne aspettava il turno per prendere l’acqua. Era anche un luogo di conversazione, di pettegolezzi, di liti feroci.
Più in là attraversavo una strada lungo la quale erano accovacciati tanti uomini. Da tempo era diventata un gabinetto all’aperto tollerato dalle autorità. Una scena quotidiana paragonabile alle metropoli indiane. Invece a casa le donne usavano il “priso”, un vaso cilindrico che al mattino veniva svuotato in un carretto comunale trainato da un asino.
Oggi quelle scene sono scomparse come è cambiata Montaltino: il castello e la chiesa ci sono sempre, ma non vi abitano più i braccianti. Quel villaggio è diventato una disordinata località turistica piena di ville, villette, case a schiera disegnate dai geometri. È rimasto il caporalato con i nuovi schiavi che provengono dal mare. Sullo sfondo domina ancora sulla vallata Castel del Monte, la residenza di caccia a pianta ottagonale di Federico II di Svevia.