Ieri. Cantava Guccini in via Paolo Fabbri 43 (1976): “Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes”. Roland chi? Risposta: sarà un “pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete”. Uno di quella risma lì, citata ne L’Avvelenata.
Ma poi, anche quando mi iscrivo alla Statale di Milano, a Lettere Moderne, e si era in effetti nel Pleistocene, finisco con il navigare dalle parti di Croce, Sapegno, Fubini… La strada che porta quasi per caso a Roland Barthes passerà per Auerbach, Sainte-Beuve, Proust.
Oggi. Roland Barthes (1915-1980) è più o meno un titolo, Frammenti di un discorso amoroso, usato per postare frasi sui social network, ma Barthes è naturalmente (semiologicamente?) molto altro, Barthes è un mondo, che ritrovo nella foto di un cinquantenne un po’ démodé che si accende la sigaretta con una smorfia da duro quasi involontaria – Barthes, in didascalia, tiene a notare che è mancino.
La famosa foto con la sigaretta, riprodotta in Barthes di Roland Barthes, mi è stata richiamata alla memoria da un altro scatto simile, anche se più quieto, quasi congelato dal tempo. È in copertina de La grana della voce, una raccolta di interviste concesse dal francese nell’arco di trent’anni (1962-1980, Einaudi), che ho acquistato usato – e insieme ho rincontrato l’intelligenza purissima di Barthes, lontana dalle semplificazioni eppure semplice nell’illuminare a parole – e talvolta nel segno (pardon!) e nel gusto dell’arbitrio, dell’etimo falso o sforzato che muta le carte del gioco e riapre le partite bloccate – il linguaggio (tutto è linguaggio) della letteratura e della vita.
Le interviste, eccetto i Miti d’oggi, sono più accessibili dei primi testi teorici che costruiscono la fama di Barthes e, poiché sono concesse a L’Express o all’Obs, mostrano il livello della cultura allora trasmessa da giornali borghesi di vasta tiratura e che sarebbe fantascienza trovar ora sui nostri fogli.
Certo, le interviste pagano pegno poiché intravediamo appena l’altro Barthes, pur così simile al primo, quello che a un determinabile punto della sua ricerca scrive ancora più di sé e partendo ancora di più da sé – del e dal mondo Roland Barthes – per muoversi con maggiore agilità e senza noie accademiche nell’impero dei segni – così chiamò il Giappone ma cosi avrebbe potuto chiamare tutto l’universo aperto all’attenzione e all’azione concreta della scrittura, o semmai della scrizione – tenendo insieme, nel neologismo, significante, significato e traccia sulla carta, sul muro, ovunque. I segni, per chiarire, altro non sono che prodotti storici, “elaborazioni ideologiche del senso”.
Barthes non approderà mai al romanzo, apprezzando invece il romanzesco (il romanzo ma senza personaggi), e indirizzerà la sua sensibilità verso una trattazione non chiusa da forme canoniche e impositive ma aperta al frammento se non alla scheggia. Al pranzo occidentale, dove tutto è prestabilito, e si parla d’affari tra formaggio e frutta, preferirà sempre la composizione idealmente mutevole della cucina giapponese.
È il mestiere di Barthes leggere e reinventare leggendo e, magari passando attraverso la semplice contrapposizione di due lettere alfabetiche – penso al contrasto di S/Z -, restituircene un uso non stereotipato, come se questo rigoroso signore dall’intuito impeccabile, criticando la letteratura e raccontandosi in essa, la creasse ex novo. Offrendola a noi libera, al rango di una chance di libertà.
Barthes è il semiologo – una volta sarebbe seguito il rullo di tamburi – che leggendo dovrebbe riandare all’Urtext da cui tutto deriva, in una susseguente e folle cascata di scarti dalla norma e di formazione di cliché. Ma poi Barthes il semiologo considera impraticabile la pista, scarta e si pone in modo umanissimo le domande che gli fa (ci fa) la letteratura.
Certo, siamo in anni diversi dai nostri, nell’agone politico si parla decisi di rivoluzione, nell’arte si discute di avanguardia, in Francia per esempio ci si interroga sul Noveau Romain di Alain Robbe-Grillet e compagnia scrivente, il romanzo in cui gli oggetti non sono più simbolici, non più poetici.
Barthes appartiene agli intellettuali – accusati di mandarinismo – che studiano di smontare (o di far saltare in aria) l’ideologia borghese, che è al potere, che è il potere. Barthes, però, riesce ad accorgersi (o questo è il suo timore) che la più accanita lotta di classe si svolge tra la piccola borghesia e la borghesia e, ipotizzando la vittoria della prima, non sa predire a quale modello questa aderirà.
Comunque. Il tanto celebrato Frammenti…, a riaprirlo ora, “discorre” con nitida intelligenza di amore, certo, e molto di ideologia – tutto Barthes, come i francesi di quegli anni, parla di potere, Barthes è ossessionato dal linguaggio del potere e dell’ideologia (“l’idea del momento che domina”) che ci agisce da mattino a sera, ci muove richiedendo la nostra complicità di schiavi e imprigionando il nostro immaginario di schiavi.
Barthes, anche se a lampi e con civetteria si denuncia borghese come una ragazza di buona famiglia che suona il piano e la domenica dipinge da dilettante, è un intellettuale che scrive per la rivoluzione – ma non propugna letteratura popolare per nutrire le masse (ha già fallito Brecht) – anzi, può persino spingersi a immaginare che, con la rivoluzione politica, la letteratura possa finire. Non è che i libri vendano molto, nota in un passo, e che le case editrici abbiano solidi bilanci.
Intanto, il Barthes che andava a caccia di logoteti (Loyola, Sade, Fourier, lui stesso forse) e che affronta la vita, se gli va, attraverso un codice proustiano, libera il piacere del testo per lettori che diventano scrittori loro stessi mentre leggono muovendosi senza pregiudizi tra le parole dei romanzi. Barthes è tra i pochi professori che non insegnano ex cathedra: all’École pratique des hautes études, anima seminari, adoperando come strumento maieutico il carisma, e quella inconfondibile e per certi versi struggente sentimentalità che ha lasciato trasparire nel suo lavoro, così diversa della fredda sicurezza ostentata da altri moschettieri dello Strutturalismo.
Ma pensa se le canzonette, cantava Guccini benemerito. E pensa se nel 2023 fosse vivo Roland Barthes… Ma nel mondo descritto da Barthes viviamo ancora, forse e purtroppo, e il linguaggio di Barthes, così prezioso e così preziosamente venato di volubilità e fragilità umana, ci serve ancora perché parla sempre (va sottolineato due volte) di libertà.
Ho comprato Roland Barthes, La grana della voce. Interviste 1962-1980 (gli Struzzi, Einaudi, 1986, L. 15.000) tra i vecchi libri di Papermoon & Book, nuovo spazio di Daniele, in via Porpora 107, Milano
Credit: ROLAND-BARTHES-CIRCA-1970 by alyletteri is licensed under CC BY 2.0. Roland Barthes by federico novaro is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.