Se si fosse ancora molto giovani, e non si avesse ancora letto Mistero napoletano (Einaudi 1995, Feltrinelli 2014), forse dopo si farebbero cose tenere e ridicole, tipo aspettare Ermanno Rea che non c’è più sotto casa sua, per dirgli grazie, e scambiare qualche parola con lui, che aveva un volto un po’ alla Montale, il volto della rana che con un tuffo muove un sasso nello stagno. Anche Rea con questo libro ha mosso il sasso, e lo stagno è il Partito Comunista nella Napoli degli anni Cinquanta, dirigenti di ottusità feroce, speranze palpitanti, le donne animali da temere o tenere buone, che non facciano troppo baccano.
Francesca Spada, la compagna dell’Unità che chissà perché si è suicidata, di baccano invece ne faceva, anche solo con la musica dei suoi bracciali d’argento, con i suoi capelli spettinati e i due figli piccoli che si portava dietro fino ad Angiporto Ferrovia, in redazione. Sono nati dal legame col compagno Renzo Lapiccirella, il volto mistico e gli occhi azzurri del comunismo. Altri due, se li è tenuti l’uomo che Francesca ha lasciato, perché era fascista e lei con un fascista non ci può stare.
Mai come quest’anno, con Napoli piena di turismo, la Napoli dello scudetto, degli ziti alla genovese che si diffondono dappertutto, di Mare fuori, questo libro è necessario.
L’indagine intorno a Francesca inevitabilmente è un’indagine intorno a Napoli, alla città delle città, avviluppante, con la sensualità di una donna che ha molto vissuto e che non riesce a liberarsi dal giogo di un protettore. Finita la guerra, avrebbe potuto essere libera, provare a risplendere da sola, ma l’hanno venduta. Per i suoi vicoli, si aggirano le belle menti dell’epoca, Renato Caccioppoli, Adolfo Omodeo, Antonio Ghirelli, Giorgio Napolitano, ma nel dopoguerra, qualcuno ha deciso che il porto dovesse essere ostaggio degli americani e delle loro navi da guerra, coi militari pronti ad agire, non sia mai che alle elezioni vinca il Pci di Togliatti. Meglio mettere tutto nelle mani di Achille Lauro, il mastino napoletano ideale, che già prigioniero in Svizzera, a conflitto ancora in corso, conosce il suo incarico da opaco faccendiere e si prepara a diventare sindaco.
È tutto già scritto, allora perché agire? Persino i compagni dell’Unità, con mille speranze e utopie, soccombono a un senso d’ineluttabilità, di destino già scritto. I figli di Amendola, gli organici del partito, tutt’altro che indenni dal fascino crudele della perfidia nei confronti degli idealisti, di chi osa nutrire il dubbio, di chi mette in discussione il meridionalismo più sterile, schiacciano ogni afflato.
Vale tutto, pur di mettere all’angolo chi non si piega. Anche colpire Francesca, donna chiacchierata, pur di colpire il suo uomo, Renzo. Francesca, pianista diplomata al Conservatorio, intellettuale, borghese, povera come si poteva essere poveri solo allora, col freddo e la fame. La sua fatica in alcune pagine è così tangibile da far male fisicamente. Rea le vuole bene, chiarisce di non essere mai stato innamorato di lei, e forse è meglio così. L’amicizia amorosa genera una pietas che mai si paleserebbe così chiara e bella, ci fosse di mezzo l’attrazione erotica.
Con scrittura fluida, toccante per sintetica efficacia (“È tutt’ora un bell’uomo, imponente, con un profilo dai tratti strutturalmente giovanili, contro i quali perfino il tempo ha difficoltà a lavorare di scalpello”, scrive dell’amico Franco Obici, e noi lo vediamo subito, l’Obici anziano bello), Rea ci conduce per le strade della Napoli di allora, ci fa conoscere i volti e gli animi delle persone soprattutto. Quanto si studiava! Era l’epoca in cui ci si poteva laureare in Medicina o Matematica, ma poi si conoscevano anche Mahler e Mozart, Euripide e Kant. La fame e la sete di autentica cultura sono una delle cose che colpiscono di più un contemporaneo, abituato alla superficialità di letture facilone, male assimilate, googlate, ingoiate e sputate fuori, senza approfondimento, senza rigore. Senza struggimento, lo struggimento di Francesca, che ha il coraggio di pensare, di pensare anche quando fa molto male, di pensarsi donna respinta dal partito e per questo “donna fallita”. La compagna Spada ha qualcosa di teatrale sì, “Romanticismo”, dirà qualcuno vedendola sul letto di morte, coi fiori intorno, sulla coperta più bella, ricamata al tombolo. Perché Francesca si è suicidata? Perché al mondo, forse, ci sono persone che hanno il compito di mettere in scena il dolore e la delusione di tutti gli altri, anche la nostra.