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Allonsanfàn
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Vi racconto mio zio, Elio Vittorini

Conobbi di persona mio zio, Elio Vittorini, nell’estate del 1952 a Livorno, dove la mia famiglia si era trasferita l’anno prima. Abitavamo in un palazzo appena ricostruito nella centrale piazza Grande rasa al suolo dalle bombe degli alleati. Intorno c’erano ancora macerie e alcuni edifici in costruzione tra i quali il duomo.

Sapevo che lo zio era un noto scrittore poiché a casa se ne parlava spesso e ne andavo orgoglioso anche se non ero un ragazzino prematuramente appassionato di letteratura. Mio padre Ugo rivelava spesso l’affetto e la stima per il fratello, maggiore di due anni, anche se tra loro correva una polemica costante sul comunismo. Era uno scontro ideologico molto garbato: si scambiavano lettere nelle quali Ugo, comunista convinto, spiegava le sue ragioni ed Elio ribatteva sugli errori dello stalinismo ed altro. Tra i due c’era una stretta somiglianza nell’aspetto, nella gentilezza e nei pensieri verso il mondo.

Ebbene quel giorno venne a trovarci con alcuni amici. Rientravano in auto da un viaggio a Paestum. Lo accompagnavano la scrittrice francese Marguerite Duras, Dionys Mascolo, divenuto in seguito direttore di Achette e una signora inglese, Sonia, molto simpatica. Anni dopo seppi che quella signora era la seconda moglie e vedova di George Orwell, lo scrittore che è diventato tra i miei preferiti. Appariva intorno a me un mondo che ancora non conoscevo, ma che inconsciamente mi attraeva.

La stessa estate rividi mio zio a Bocca di Magra, allora piccolo villaggio di pescatori dove da anni Elio passava le vacanze con la compagna Ginetta Varisco e tanti amici.  Era separato dalla prima moglie Rosa Quasimodo, sorella del poeta.

Ero stato invitato insieme a mio fratello e mia sorella, ospiti nell’unico alberghetto, la pensione Sans Façon. Vi ritrovai Marguerite Duras e poi c’era anche un signore, un americano che parlava abbastanza bene l’italiano: era Ernest Hemingway. Ricordo le enormi grigliate di pesce che preparava insieme a Elio e quella volta che mentre facevo il bagno nel Magra disse rivolto a me: “Questo bambino non sa nuotare” e mi insegnò a muovere bene le braccia.

Rividi Elio tante altre volte a Livorno e a Milano, prima e dopo il mio trasferimento definitivo nella metropoli. Avevo 16 anni e c’era appena stata l’invasione sovietica dell’Ungheria. In quei giorni ero ospite nella sua casa di viale Gorizia e una sera a cena espressi le mie idee giustificando l’Urss e criticando duramente l’imperialismo americano (a quei tempi rischiavo il fanatismo). Lui mi ascoltò con molta attenzione. Poi mi chiese se avessi letto Americana (l’antologia di narratori USA curata da lui e da Cesare Pavese). Dopo la mia risposta negativa, mi disse: “Leggi prima questo libro” e mi dette Il Paese di Dio, un reportage di un lungo viaggio negli Stati Uniti compiuto da due inviati sovietici della Pravda nel 1935, Ilja Ilf e Eugeny Petrov. Era l’America di F.D. Roosevelt che si stava riprendendo dalla crisi e i due inviati la percorsero in auto per un anno intero accompagnati da una coppia di sposi di New York. Porgendomi il libro (lo conservo ancora) mi disse: “Ricorda che quel Paese ha un’opinione pubblica che malgrado tutto può esprimere il proprio pensiero e giornalisti e scrittori che possono scrivere liberamente”. Il maccartismo era finito da poco.

Lessi il libro in breve tempo e la prima cosa che mi colpì fu la prefazione nella quale si raccontava che Ilf, morto nel 1937, fu una delle tante vittime delle “purghe” staliniane e Petrov scomparve durante la guerra. Incominciai ad avere molti dubbi sul mondo di “oltre cortina” e a riflettere meglio sulla politica e sulla Storia.

Quando mi trasferii a Milano andavo molto spesso in viale Gorizia dove la domenica venivano accolti a cena gli amici e la zia Ginetta preparava sempre delle prelibatezze. Si parlava di tutto, di politica, di cultura e anche di frivolezze. Io mi limitavo ad ascoltare. Elio parlava poco di sé e quando qualcuno accennava alla sua attività durante la Resistenza, evitava di approfondire nascondendo con sorrisi il suo imbarazzo.

Anni dopo la sua morte, quando lavoravo da poco al Corriere della Sera, un anziano tipografo mi raccontò che l’aveva conosciuto durante la Resistenza. In quel periodo nel giornale un gruppo di operai aveva fondato una sezione clandestina del partito comunista e, dopo la chiusura notturna del quotidiano, quel piccolo gruppo con il tacito assenso dell’amministratore Aldo Palazzi, stampava l’Unità alla presenza di Vittorini che ne seguiva la lavorazione e poi portava via le copie stampate.

Un’altra vicenda me la raccontò il grafico Albe Steiner, suo grande amico: un pomeriggio del 1944, Elio trasportava su una bicicletta delle bombe a mano nascoste in un cesto, quando in Viale Sarca, davanti alla Pirelli, una gomma si sgonfiò. Poco dopo i cancelli della fabbrica si aprirono per l’uscita degli operai. Ne osservò alcuni che possedevano una bicicletta e si rivolse a uno di loro chiedendogli di prestargli il suo mezzo in cambio di quello con la gomma a terra. Di fronte alla perplessità dell’operaio Elio aprì il coperchio del cestino e gli fece vedere le bombe. Ottenne la bicicletta e quando il giorno dopo gliela riportò, l’operaio gli restituì l’altra con la gomma riparata. Non si conoscevano e non si sono più rivisti.

Elio si era ammalato di un tumore nel 1963 e sapeva che la fine della sua vita sarebbe arrivata presto. Ma lavorava in continuazione: negli ultimi mesi Italo Calvino lo andava a trovare spesso per aiutarlo a “chiudere” quello che sarebbe stato l’ultimo numero del Menabò, il libro-rivista letteraria che veniva pubblicato da Einaudi.

Alberto Asor Rosa definì quella rivista “l’organo più autorevole nel concepire il rinnovamento letterario in termini fortemente sperimentali e linguistici nell’ambito di una operazione culturale diffusa”. Negli ultimi giorni della sua vita gli leggevo i giornali e discutevamo anche sui fumetti americani ospitati dal Giorno e dalla rivista Linus, uscita da poco.

Morì la sera dell’11 febbraio del ‘66. Ad arrivare tra i primi in viale Gorizia fu Eugenio Montale: ricordo le sue lacrime.

Elio Vittorini

Nella foto, da sinistra Ugo, padre di Ettore, autore di questo articolo, e Elio Vittorini (proprietà famiglia Vittorini).

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