Poche cose al mondo sono più noiose della scienza della politica. E poiché i guai non vengono mai da soli, alla noia si somma l’irritazione per l’astrusa irrilevanza di enunciati, teorizzazioni, formule e ipotesi progettuali. Queste ultime, come sa bene Platone, il primo e più grande politologo della storia, rischiose al punto da mettere a repentaglio la vita stessa del propugnatore.
Un mestiere pericoloso. In passato il politologo stava al Principe come oggi l’allenatore al patron della squadra di calcio. Sacrificabile (e spesso sacrificato) in nome di quella ragion di Stato che era il nome in cui di volta in volta il signore dava ai propri comodi interessi. Oggi i tempi sono cambiati e al politologo capita pure di spegnere 100 candeline, come accade in questi giorni a Sua Maestà Henry Kissinger, Signore della Realpolitik. Lontanissimi per sua e nostra fortuna i tempi del povero Machiavelli e dell’ancor più povero Tommaso Moro, costretto a subire la compagnia degli ur-leghisti il primo, del boia reale il secondo.
Con quell’aria da americano in gita. Una forse evitabile premessa per arrivare a dire che sono inciampato in un libro di politologia che vale la pena di leggere. Anzi, se fossi ministro di qualcosa ne tradirei immediatamente il dettato (tra cinque righe capirete quale sia) imponendolo come lettura obbligatoria. Cominciamo dall’autore, Michael Walzer, il solito ebreo americano (o americano ebreo se preferite) la cui intelligenza visionaria lavora all’unisono con il pragmatismo di chi ha vissuto lungo l’arco di un’intera esistenza le asperità e le contraddizioni dell’esperienza politica. Doti che unite a una smisurata conoscenza dei fatti e delle idee gli consentono di riflettere sul mondo reale in cui vivono gli esseri umani in carne ed ossa in modo potentemente creativo. Tra altre dieci righe capirete perché. Ennesima conferma del fatto che è molto più interessante ascoltare gli ultra ottantenni piuttosto che perder tempo con le lagne dei ragazzetti.
La politica non è una scienza. Il libro si intitola Che cosa significa essere liberale. Lo pubblica Raffaello Cortina, tra i più bravi dei piccoli editori. È stato scritto, racconta la prefazione, nel corso della pandemia. Non potendo uscire di casa l’autore ha dovuto fare ricorso alla memoria. Benedetta pandemia, ne è uscito un libro compatto come un’amigdala e leggero come carta Bibbia: solo chi ha assoluta consapevolezza di ciò di cui parla riesce a rendere semplice la complessità. Conscio del fatto che potrà essere il suo ultimo lavoro, Walzer va diretto al cuore delle cose. Mescola l’insegnamento ricevuto delle sue (molteplici) esperienze politiche sul campo come si diceva una volta, con le teorie della sua disciplina. Pur essendo un’arte antica, la politica non è ancora una scienza. Chiediamoci se lo sarà mai. Stando alle evidenze, l’oggetto delle sue considerazioni – il governo delle società umane – non sembra sia ancora uscito da una caverna neanderthaliana. Correva il III secolo a.C. quando Platone rischiò la pelle a Siracusa per via di alcune sue radicate convinzioni; nonostante siano passati più di duemila anni pare che neppure oggi promuovere forme di governo basate sulla ragione e sulla sapienza riscuoti il plauso dei potenti della terra.
Liberale lo dici a tua sorella. Quando avevo vent’anni ed ero più ignorante di una capra, la parola “liberale” risvegliava in me e in quelli come me (uno sfracello) l’immagine intristita da mite cane bulldog di Giovanni Malagodi. Un onest’uomo a cui toccò in sorte d’essere il segretario del Partito Liberale Italiano, un insignificante partitello il cui compito era reggere la coda alla Democrazia Cristiana, la signora e padrona dei cuori e delle menti degli italiani. Poi, finalmente, la capra che è in me scoprì che “liberale” faceva rima anche con John Stuart Mill, Isaiah Berlin e sul fronte della poesia, ma non solo di essa, un certo Czesław Miłosz. Ci sarebbe da citare pure il signor Popper, ma per quello ci volle più tempo per via di uno sciocchezzaio che il nostro nutriva nei confronti di Freud. Insomma, venne il giorno (il mese, l’anno) in cui la mia generazione nutrita di anticapitalismo antiamericano non so se più sciocco o più ingenuo, scoprì che liberale non significava necessariamente reazionario e neppure conservatore. Nonostante l’orrida signora Thatcher e l’ancor più orrido amichetto suo, l’attore di serie B divenuto presidente di serie A.
Ancora Copernico? Sì. Torniamo al libro di Michael Walzer, bella faccia da scanzonato attore francese che mette allegria solo a vederla. Perché bisogna leggere Che cosa significa essere liberale e perché bisogna farlo oggi? Walzer compie una piccola rivoluzione copernicana. L’astronomia non c’entra, ma la metafora è quella: il succo della sua riflessione consiste nel prendere il sostantivo (liberale) e trasformarlo in aggettivo. Punto. Nel primo capitolo si chiede se il liberalismo sia un ismo come tutti gli altri. Lo era nel secolo scorso, sostiene. Oggi il liberalismo, un tempo marcatore politico e culturale, è divenuto il denotato di una posizione morale. Dal piano della politica si è passati a quello dell’etica. “Noi siamo o aspiriamo ad esserlo” scrive Walzer “di mentalità aperta, generosi e tolleranti. Siamo in grado di convivere con l’ambiguità, siamo pronti ad affrontare dispute che non sentiamo di dover vincere. Qualunque sia la nostra ideologia, qualunque sia la nostra religione, noi non siamo dogmatici, non siamo fanatici… La sensibilità liberale che si accompagna alla morale è quasi certamente meglio rappresentata in letteratura che in politica. O quantomeno ho imparato a percepire questa sensibilità e a valorizzarla leggendo poeti come Wislawa Szymborska…”.
Decenza e verità. Per tutte le 171 pagine Walzer applica la sua intuizione. Si può essere socialisti liberali, e democratici liberali e nazionalisti, comunitari, femministe, professori, intellettuali e financo ebrei liberali? La risposta è sempre sì. “Abbiamo bisogno” afferma “di democratici liberali pronti a lottare contro il nuovo populismo; di socialisti liberali che difendano l’uguaglianza ma si oppongano al frequente autoritarismo dei regimi di sinistra; di nazionalisti liberali che si oppongano ai nazionalisti xenofobi… di internazionalisti liberali che difendano le persone in difficoltà oltre confine; di comunitari liberali che si oppongano alle passioni esclusiviste e alla feroce partigianeria di alcuni gruppi identitari; di professori liberali che difendano la libertà di parola negli atenei…”. E così conclude: “Le battaglie per la decenza e la verità sono tra le più importanti del nostro tempo, e l’aggettivo “liberale” è la nostra arma più importante.” Urge chiedersi come vogliamo vivere (e come non vorremmo affatto).