Ammicca il Pupone, cartonato in scala 1:1, in improbabile pigiama ambrato con rifiniture in rosso, giacchetta dagli ampi revers in raso sul torace nudo e bermuda in pendant, ciabattine in velluto con fibbia dorata alla fine delle calcistiche caviglie, mentre con l’indice invita a sfogliare il catalogo elettronico di Comodita Home, la catena di arredamento molto popolare tra il Kosovo e la Macedonia di cui è testimonial, e magari viste le recenti gossippare vicende sul naufragio del suo matrimonio, applicando aggiornata la formula del Gaber, sottintende Totti un qualche desiderio di “rifarsi una vita” venendo a stare in città sì ma in Albania, a Scutari per la precisione, dove sono entrato nel pomeriggio dal Montenegro con una piccola Skoda Citigo rosso fiammante noleggiata all’aeroporto di Podgorica in compagnia di un bottiglione di plastica da 2 litri di Apatinsko, la birra serba controllata dalla multinazionale canadese-americana Molson Coors, a occhio ormai calda come una lager inglese.
Shkodër, in albanese, sulla sponda del lago omonimo, che a seconda dell’andamento dei cirri scopre variazioni di verde inaspettate sulle rive dove si affacciano sonnolenti ristoranti di pesce e le acque sembrano più increspate dai brividi di Blanco e Mahmood che dal vento laddove sostano i vaporetti mentre la centrale via pedonale si prepara allo struscio serale: i camerieri del San Francisco vigilano pigri sui turisti europei, indecisi tra un cono gelato e un fresh fruit, dopo un giro veloce tra il castello, la torre inglese dell’orologio, la moschea con i minareti puntati come razzi in via Olona, gli hotel sovietici ribattezzati Golden Palace e Chicago, spaiati dal vagamente French Quarter style del Red Bricks, o lo stondato Colosseo più rêverie lacustre ispirata da contaminazioni illiriche, romano-bizantine e veneziane con svisature ottomane e geometrie alla StarWars e illuminazione notturna che si vede anche dalla dirimpettaia Praja di Gallipoli, niente però che apra il cuore agli amanti del brutalismo come le periferie dove il cemento si mostra fieramente inconsapevole e nudo senza concessioni all’estetica che non siano certi traballanti pezzi di insegne intorno ai quali si ricostruisce un passato di Pizzeria forse intitolata ai Cinque Eroi prima del loro declassamento o i pini mediterranei che spuntano dietro i muri, altissimi.
La toponomastica commerciale si ispira all’Italia degli Ottanta quando da noi i negozi artigianali diventavano Barber Shop e Bakery e Food&Drink e una Gelateria qui è il corrispettivo esotico di una gelateria, i monumenti alla fisica celebrazione palestrata fondono il bronzo di stampo comunista e le possanze di Léger, ma le ville con pretese, in rigoroso bianco di Cupertino, sono un fake dell’ellenistica Apollonia alla maniera di Las Vegas in un trionfo di colonnati, timpani e frontoni punteggiati da cavallini Ferrari biancocelesti sui cancelli e funghetti biancorossi da giardino e si trasformano allo stesso modo lungo le strade statali in templi per matrimoni pacchiani dove è facile immaginare sposine acchittate alla Kardashian con fiocco sui girovita abbondanti e consorti in tight pink alla Jay-Z quando pure i camerieri del ristorante Tradita istruiti a dire in inglese che tutto è traditional alla domanda su cosa sia esattamente il dessert rispondono tautologici scuotendo il testone quadrato: “Dessert is dessert”.
Ma questi pachidermici SUV neri tra le scatolette colorate delle city car e i carretti col cavallo, a chi appartengono?
Uscire da Shkodër, la prima domenica di agosto, in direzione della costa col miraggio dei Caraibi albanesi come da catalogo promozionale, giù a Ksamil, al confine con l’Epiro, è l’esodo temuto con una statale a due corsie dove eterni maranza delocalizzati in attesa d’essere rieducati alla partenza intelligente si fanno beffe della corsia d’emergenza sotto lo sguardo dei poliziotti di strada nascosti tra i banchi dei fruttaroli finché – senza soluzione di continuità – inizia un’autostrada che a sera, tangente Durrës, porta a scoprire un Adriatico a nostra immagine e somiglianza dove le sdraio di tela stinta sono targate Ivano e i pedalò di terza mano di indubbia italica provenienza si abbinano a palazzoni con piscina da offerta alberghiera omologata alla Riviera ma col piglio splurge dell’ultimo arrivato desideroso di farsi notare (ma con quali fondi domandiamo inutilmente ricevendo il consueto blink delle palpebre di chi intende far sapere che o non sa o meglio è non si sappia, dall’ospite del B&B che ci accoglie di ĺà dalla tangenziale, lontano duecento metri dal lungomare sberluccicante, dopo l’insegna con crestuto elmo imperiale gallico di una pompa self-service notturno, dove tutto è ancora in fase di sviluppo per chi cerca di agganciare il treno senza poter contare sulle sovvenzioni riservate solo ai 4 e 5 stelle e il raki è fatto con le bacche dell’orto dietro la hall) non fosse per i bunker di Hoxha a presidiare ora non i caposaldi del marxismo-leninismo ma la scriminatura delle passerelle che dividono la spiaggia in ordinate file trincerate di ombrelloni. “Macché Caraibi! A Ksamil costa tutto tre volte tanto e il mare è meglio qui” argomenta – in italiano perché come tanti albanesi ha fatto il viaggio del Novantuno e conosce Milano e Torino – col piglio del bottegaio che dileggia l’attività del dirimpettaio, maledicendo la propaganda che gli sottrae la clientela in transito invece di renderla stanziale per la settimana di ferie almeno a ferragosto.
Ma qui si segue l’input propedeutico del Pupone e senza nessuna voglia di fermarmi ho solo intenzione di sfogliare l’intero catalogo delle spiagge prima di rinculare dall’interno, con Gjirokastër e Berat in agenda prima di far ritorno nel sorprendente Montenegro, alle sue baie e ai fiordi, alle spiagge che celebrano pacifici happening chissà quanto perpetui tra le etnie balcaniche, al delirio di Budva col suo lungomare attrezzato a luna park col tirapugni dove si sfidano maschi lunghi come giocatori di basket, le ragazze in due pezzi a Ulcinj con mutanda rosa e reggiseno a righe e certe mise panterate per la caccia serale, le poliziotte ostili a Boka Bay con la coda alta da entraineuse di periferia fuori dal cappellino americano d’ordinanza con la visiera e i bambini in fila per la polaroid sul bagnasciuga col pitone o la scimmietta mentre le mamme fumano coi polpacci in acqua e poi spengono le cicche nella sabbia, le quinte di alture rocciose che nascondono monasteri ortodossi e certi demoni, tra i bungalow per nudisti ad Ada Bojana, neri come tizzoni e immobili in piedi sotto il sole come statue con batacchio da superdotati che sbiancherebbe ancor di più il pallido David della metropolitana di Glasgow, le sparatorie che risolvono liti familiari nel Far West di Cetinje e le barche che fanno la spola in cinque minuti previo carico umano completato oltre la capienza massima all’isolotto di Hawaii Beach, che ognuno se non il suo OnlyFans dove postare il filmino erotico con vista dai boschi su Sveti Stefan ha almeno il suo sogno esotico di ripiego: la prima sorpresa rotolando verso sud – in mente ancora questa follia pop che dal Pacifico porta ai Caraibi albanesi con Dua Lipa dall’autoradio ma se si intromettono ancora le frequenze italiane con Noemi giuro non accendo più – è questa statale che cozza contro il promontorio e allora la strada inizia a salire con tornanti così stretti che in difficoltà vanno i pick up di arroganti polacchi con le tavole da surf e le vele da parapendio e non l’umile Citigo che sterza agile in curva e succhia terreno pennellando in prima agli scarafaggioni neri coi vetri oscurati che arrancano col cambio automatico, preoccupati in ripresa di sfrisare la carrozzeria urtando i muretti che separano dagli strapiombi, mentre a guidare “all’albanese” sono solo io, gomito fuori dal finestrino e tutto il vento caldo dell’estate in faccia. Saranno tutti autisti di Uber di ritorno per la settimana di ferie col Mercedes 4×4 e l’X5 di rappresentanza?
Al passo Llogara terminano i boschi di conifere ed è solo l’inizio della discesa sulla riviera albanese, un sole che stordisce al parabrezza e dentro dai finestrini spalancati sulla celeste frizzante immensità. Sono spiagge di acciottolato selvatico che già trasudano il verbo della riqualificazione, con resort alveari che implementeranno a dismisura l’offerta ricettiva, sì ma per chi?
Il governo foraggia le strutture luxury ma pure i chiringuitos in stile Tulum versione alcolico-spiritualista, con colonna sonora da Buddha Bar, cerchi aztechi e ombrelloni a pagoda in pendant coi materassini su chiccose intelaiature di legno color chicco di caffè che shakerano White Russian, vanno deserti, e non solo per mancanza di oligarchi, e rendono di più gli enormi parcheggi per le auto di chi poi s’incammina con la borsa frigo assetato di sole e turchese e tranquillità nel tempo che si dilata in una cottura a fuoco lento, quando svaporano all’ombra di improvvisate tende di lenzuoli bianchi e fragili ombrelli dell’Algida anche i parapendii in lenta discesa, i voli concentrici dei rapaci, i rari yacht e i barcozzi che fanno il tour via mare: i bunker abbandonati come gusci di conchiglie sono sentinelle a difesa di una guerra perduta, chi riempie il vuoto dopo la fine del comunismo mentre il mercato fa man bassa in attesa che una mano invisibile redistribuisca il nuovo benessere tra tutti? Uno l’hanno dipinto di giallo e sorride beffardo come l’icona dello Smile (la seconda parte del reportage, qui)
Tutte le foto sono di Gabriele Nava e sono state scattate con il Samsung Galaxy Z Flip 3 5G. Qui i suoi video su Albania e Montenegro