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Allonsanfàn
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Brontë al cinema: Emily è vero mélo, anzi amore folle

Pioggia, brughiera, occhi grandi, mani sottili che sfiorano le foglie, violini, pianoforte che sembra sempre Rachmaninov anche se non lo è, pioggia, brughiera. Tutto Emily, di Frances O’Connor, attrice alla sua prima regia, grida al feuilletton, eppure. È che la famiglia Brontë s’addice al mélo, compressa com’è in una small town vittoriana, e le small town, è risaputo, dalla notte dei tempi a oggi sono tanto avviluppanti quanto foriere di emozioni big size.

Tra i sei figli del severo reverendo Patrick Brontë, due muoiono giovanissime, due sono scrittrici, Emily e Charlotte, e l’unico maschio, Branwell, è un oppiomane ribelle. O’Connor infatti ci va giù pesante, non si sottrae neppure a uno dei cliché del caso, eppure. Oltretutto Emily-Emma Mackey ha occhioni alla Elodie, labbra carnose, denti da favola e regge il primissimo piano che è una meraviglia. Infatti, vai di primissimi piani, eppure. Eppure più il film entra nel vivo, con licenze non da poco sulla vita della nostra eroina, compresa una love story tormentata che in realtà Emily non ebbe mai, o almeno non ci è dato conoscere, più la forza di quel pathos, quello del suo unico romanzo, Cime tempestose (1847) si insinua sotto pelle, comunque. Perché Cime Tempestose, ma anche Jane Eyre della sorella Charlotte, esplorano i sentimenti primordiali, senza mediazioni. Heatcliff e Catherine, la coppia partorita dalla fantasia di Emily, con la loro passione malata, l’ossessione, l’alone mortifero che si portano appresso, sono la dipendenza affettiva messa su carta, se visti con sguardo socialmente accettabile, ma sono l’amour fou e basta se li si affronta senza paura, sapendo che talvolta tra uomo e donna è proprio quella cosa lì, anche.

Il signor Rochester, protagonista di Jane Eyre, scritto nel 1847 da Charlotte con lo pseudonimo di Currer Bell, è l’uomo schermato, la cui corazza solo la sottile intelligenza di Jane è in grado di penetrare, prima ancora della bellezza, che lei non possiede. Sempre con lo sguardo accettabile, invece, abbiamo solo un padrone che si diverte a tormentare psicologicamente una dipendente di classe sociale inferiore, ma quanto è più banale, cieca, ottusa questa visione! O’Connor i libri li ha letti, si vede. Sa che è sufficiente affidarsi alla potenza di personaggi assoluti, estremi, a emozioni e storie che nel mondo di oggi vengono abbinate alle sole donne, tanto che il film potrebbe diventare il classico appuntamento da professoresse di inglese in pensione, che dopo vanno a prendere il tè delle cinque, eppure. Eppure le pene di Emily, la fatica per uscire dal personaggio della “stramba” del paese, il desidero di farsi accettare e amare anche se fantasia e creatività hanno la meglio sulla proverbiale concretezza femminile, arrivano a segno, comunque. S’incrina dolorosamente il gioco di sguardi tra innamorati, e la camera torna a indugiare solo sul viso di Emily, di nuovo astratta, quasi estranea al reale. Eppure sarebbe un gran peccato se i libri delle sorelle Brontë, invece, li leggessero solo le donne. Perché è utile, doveroso, necessario, e soprattutto bello, che gli uomini li leggano, e che li leggano proprio oggi. Altrimenti si finisce come il reverendo William Wieghtman, di cui Emily nel film s’innamora pazzamente, ricambiata. Bronwell preconizza alla sorella: «Scoprirà la tua vera anima e ne resterà terrorizzato». Gli uomini terrorizzati dal femminile, così forte e così capace di passare attraverso le spire dei sentimenti estremi senza morirne, se non si ravvedono in tempo utile, finiscono per odiarlo, il femminile. E allora serve, è bello farsi un giretto nella brughiera, con Catherine e Jane, a prendersi un po’ di temporale.

Emily è un film del 2022 di Frances O’Connor. Con Emma Mackey, Oliver Jackson-Cohen, Fionn Whitehead. Dal 15 giugno al cinema

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