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Allonsanfàn
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Tolstoj e Anna Karenina. Caldo invito ad andare oltre il celebre incipit

Quest’estate, osate quell’Anna Karenina con l’incipit più famoso e citato del mondo: “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”! Abbiate la curiosità di capire che cosa succede dopo, addentatelo, sbranatelo, nuotateci dentro, ché Tolstoj ci chiede proprio questo. Qui c’è tutto l’umano troppo umano, epica di stampo omerico, come scriveva George Steiner nel bellissimo saggio Tolstoj o Dostoevskj (Garzanti, 2021). Forse non è mai stato detto tanto chiaramente tutto quello che c’è da dire sulla gioia e sul dolore come in Anna Karenina, ma per raccontare questo capolavoro occorrono parole semplici, niente accademia, anche questo sembra chiedercelo proprio lui.

A dispetto del titolo, i protagonisti sono due, Anna e Levin, che s’incontrano una volta sola. In mezzo a loro, tanti personaggi, tutti indimenticabili, nessuna figurina di contorno. Ognuna delle apparizioni ha un suo senso profondo, che tocca, commuove, indigna, intenerisce. Sepàn detto Stiva, una simpatica canaglia; sua moglie Dolly, piena di figli e di corna, che sembra solo una casalinga disperata, ma invece ha una profondità d’animo ormai sopita nel cuore, con le sue disillusioni e la capacità di comprendere a fondo il cuore buono di Levin; la sorella di Dolly, Kitty, ovvero la gioventù che esplode, con ingenuità e poi maturazione; Anna, naturalmente la fedifraga Anna, affascinante, intelligente, appassionata, prigioniera delle convenzioni sociali, male interpretata, tranne che da uno spirito affine, che ovviamente non è né il marito né l’amante. Gli  Ščerbàckij, i genitori di Dolly e Kitty, ironico il padre, ansiosa la madre, che assistono al dipanarsi degli eventi. Poi Nikolaj, il fratello reietto di Levin, che (orrore!) vive con una donnaccia e il mondo non glielo perdona. D’intensità sopraffina il capitolo con la visita che Levin decide di fargli quando scopre che è malato, con Kitty improvvisamente forte di un sapere femminile superiore. Del resto Tolstoj riesce a far parlare persino il cane da caccia di Levin, stupito nel vedere il padrone triste, poco reattivo. Ci provasse chiunque altro, saremmo in zona cartoon Disney, invece qui lo sguardo del cane sul suo padrone, su un Levin apatico, anche quello ha senso, ci dice in maniera più che mai diretta ed efficace che i gesti e i riti comuni nella sofferenza amorosa perdono di spontaneità e leggerezza. Poi Vronsky, bello e un po’ fatuo, umano nella sua vigliaccheria di fondo. La società conformista nella quale Levin si muove con il suo idealismo, a tratti la sua goffaggine. Le varie tappe della sua intensa storia d’amore con Kitty, la Grande Madre Russia con le classi sociali, vere e proprie caste, i contadini analfabeti da una parte, i nobili che parlano francese dall’altra.

Ci sono anche i film: qui Garbo e March (1935)

Lev Tolstoj era un uomo larger than life, come dicono gli americani. Ufficiale nella guerra di Crimea, si dice fosse capace di combattere con un orso a mani nude, e nelle foto giovanili è di una bellezza folgorante. A 35 anni, dopo una vita da scapestrato sentimentale, il colpo di fulmine: si sposa con una donna molto più giovane, Sòfja, dalla quale ha 13 figli. Donna di notevole intelletto, Sòfja copia per lui innumerevoli volte infinite versioni di questo libro e di Guerra e Pace. Si amano e poi si detestano, come tutte le coppie che si mettono insieme da giovani, nel periodo degli idealismi e della volontà fusionale. Spesso non funziona, ma bisogna provare comunque, perché nel migliore dei casi, e questo lo era, produce creatività e capolavori.

Sul finire della sua esistenza, la famosa “crisi mistica”, così la definirono. Scappa di casa, fa perdere le sue tracce, lui nato nobile e ormai famosissimo, vuole scomparire nell’anonimato. Prima, aveva edificato una tenuta per i suoi contadini, che allora erano quasi servi della gleba, anzi, senza il quasi. Jàsnaja Poljàna si chiama questa tenuta utopistica. Tolstoj fa studiare i figli dei contadini, dà loro assistenza medica.

Anna Karenina, traduzione di Pietro Antonio Zveteremich, I Grandi Libri, Garzanti, 1965

Comunque, quando fugge, già malato, sua moglie naturalmente lo fa cercare. Lo trovano alla piccola stazione di Astapovo, un villaggetto sperduto dell’immensa Russia, che oggi in suo onore si chiama come lui. Tutti se lo vogliono accaparrare, la chiesa Ortodossa, i famigliari, gli amici. Arrivano i fotografi, i cronisti, è uno dei primi casi di morte con risonanza mediatica, perché alla fine Tolstoj a Astapovo ci muore, a 82 anni. “Vi sono sulla terra migliaia di uomini che soffrono: perché volete soltanto occuparvi di me?”. Queste le sue ultime parole secondo gli agiografi, ma uno dei suoi figli, Sergej, l’unico ammesso al suo capezzale, rivela che invece aveva detto: “Andrò in qualche posto dove nessuno possa disturbarmi. Lasciatemi in pace”. Sembrano più realistiche, oppure possiamo affidarci a quelle che tramanda in maniera forse un po’ letteraria Igor Sibaldi: “La verità… Io amo tanto… come loro…”, perché in queste ultime è condensata la summa del pensiero di Tolstoj, considerare se stesso solo dentro all’insieme dei suoi simili, restare in compassionevole comunione con l’affanno di tutta l’umanità, lo stesso affanno che prova il suo Levin, in uno stralcio di struggente consapevolezza: “Era come se tutte quelle tracce del suo passato lo avessero afferrato dicendogli: ‘No, non ci lascerai, non diventerai un’altra persona, resterai quello che eri: coi tuoi dubbi, con la continua insoddisfazione personale, coi vani tentativi di correggerti, con le cadute e l’eterna attesa della felicità che non ti è stata data e che per te non è possibile’”.

Nella foto grande, Lev Tolstoj a Jàsnaja Poljàna, di Sergej Michajlovič Prokudin-Gorskij (particolare)
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