Dicevi Pompei e pensavi al silenzio immobile di una città sepolta con le sue ville d’ozio, gli affreschi erotici che immortalano un kamasutra mediterraneo rosseggiante di densi colori ”pompeiani” e le statuette dotate di falli priapici che neanche nei fornitissimi sex shop di oggi. Ma nei primi anni ’70 del secolo scorso (un’era geologica nella quale io già mi trovavo su questa Terra e andavo al Cinema) è uscito nelle sale il docu-film del regista Adrian Maben Pink Floyd live at Pompei, girato con la band inglese dal 4 al 7 ottobre del 1971 nell’anfiteatro romano degli scavi. E qui qualcosa è successo. Quel film–concerto destinato a diventare leggenda ha svelato a me e al mondo che il silenzio arcano di Pompei era “suono” e seminava musica (e dev’essere stato così anche prima del diluvio vesuviano di lava e di cenere, visto il numero di strumenti musicali che vengono continuamente riportati alla luce dagli scavi, dalla tibia bronzea del primo secolo all’ingegnoso hydraulis, una sorta di organo ad acqua di origine greca che veniva usato nei riti religiosi).
È stato comunque quel silenzio a ispirare al regista Maben l’idea di un concerto “dove gli spettatori sarebbero stati, in un certo senso, i fantasmi dell’antica Pompei”. Come l’abbia sentito per caso, quel silenzio essendo rientrato nell’anfiteatro deserto ormai chiuso al pubblico per cercare il passaporto che pensava di avere perso lì, accorgendosi che le risonanze rimbalzavano sui muri di pietra e “riecheggiavano persino i suoni degli insetti” è raccontato da Wiki con dovizia di particolari (insieme a curiosi episodi sul rocambolesco montaggio del film). E su YouTube si trova l’intero concerto messo in rete da un fan, compreso il brano Mademoiselle Nobs dove a cantare (o forse a piangere in un bel blues) è una cagnolona, la levriera russa del bassista Roger Waters stesa sul palco mentre qualcuno le tiene il microfono davanti al muso. Per quanto mi riguarda, il film di quel concerto volutamente senza pubblico (tutto il contrario di Woodstock) mi ha reso per lungo tempo “pinkfloydiana” assoluta. David Gilmour Roger Waters Richard Wright Nick Mason che suonavano in stato di grazia in mezzo alla polvere, i capelli scompigliati dal vento, erano di una bellezza da lasciare sgomenti (e oltretutto di lì a poco, sarebbe uscito l’album The Darkside of the Moon…). Arrivando all’oggi, si viene a sapere che, a cinquantadue anni di distanza, lo storico batterista dei Pink Floyd Nick Mason si esibirà di nuovo a Pompei il prossimo 24 luglio accompagnato dai Saucerful of Secrets nella sua tournée italiana, “per ricordare lo spirito di quel tempo”. Cosa che, temo, sarà irripetibile (ci aveva già provato il chitarrista David Gilmour nel 2016).
Nel frattempo Pompei rinnova i suoi incantamenti musicali. L’11 luglio scorso ha segnato la data di un evento che probabilmente verrà ricordato tra qualche decina d’anni come “quella volta che”, un unicum del quale sarà bello poter dire “io c’ero…”. Il Teatro Grande di Pompei ha ospitato Riccardo Muti con la sua Orchestra Giovanile Cherubini, insieme all’Orchestra del Conservatorio di Amman e al Coro Cremona Antiqua, nel concerto finale del progetto Le Vie dell’Amicizia 2023 (organizzato come sempre da Ravenna Festival). Progetto che vuole essere, nelle parole dello stesso Riccardo Muti “un ponte di note nel segno della pace e della solidarietà: la musica è un linguaggio universale, porta la gente ad abbracciarsi con sincerità, è la più alta forma di politica, può aiutare a tornare a sperare nel futuro”.
Ripetendo a Pompei il programma eseguito pochi giorni prima a Jerash, l’antica Gerasa, perla archeologica a una cinquantina di chilometri a nord di Amman, Riccardo Muti ha voluto rendere omaggio alla generosità della Giordania, dove ha visitato il campo profughi di Za’atari, a pochi chilometri dal confine siriano, da anni rifugio di disperati in fuga dalla guerra. Allo stesso tempo il concerto riproposto a Pompei ha creato un ideale gemellaggio tra due città rimaste calvinianamente “invisibili” per molti secoli, l’una sotto la cenere del Vesuvio, l’altra, la “Pompei d’Oriente”, sepolta dalla sabbia del deserto. Sotto la luna che inargentava le antiche pietre, la magia della musica. Contagiosa per tutti: per il pubblico (sì, a differenza del film di Maben qui il pubblico c’era, e anche tanto) e per gli stessi artisti, italiani, giordani, siriani. Brani dall’Orfeo e Euridice di Gluck, il Canto del destino di Brahms, Casta diva dalla Norma di Bellini. Ma anche composizioni sconosciute, come I dimenticati sulle rive dell’Eufrate, creata da Dima Orsho su un’antica poesia siriana tramandata oralmente nella regione di Jazeera, “un territorio emarginato della Siria settentrionale tra Tigri e Eufrate” (territorio emarginato… ma, dai miei ricordi delle elementari: non era proprio lì, tra il Tigri e l’Eufrate, che è nata tutta la nostra civiltà?). Mah. Non resta che confidare nella preghiera di pace rivolta da Norma (il soprano Monica Conesa) alla casta diva Luna. La quale, leopardianamente silenziosa, “inargenta” e, per il momento, tace.
Nella foto di apertura, Nick Mason a Pompei suona One of These Days e si vede anche un pochino di David Gilmour
- Jonne Bertola, giornalista milanese. Autrice del romanzo Swinging Giulia, di Piacenza (Morellini) e di Di chi è questo corpo (Luoghinteriori)