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Allonsanfàn
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Storia di libri non letti, di Bu, di Lilli e dei versi di Neri

Non so se capita anche a voi quel che capita a me. Riempirsi di libri, nuovi o usati, scovati sulle bancarelle, e poi non leggerli, ma annusarli appena, assaggiarli, e poi perderli, lasciarli lì da qualche parte (fisica e mentale) pronti a essere inghiottiti da altri volumi acquistati per brama o per sbaglio, per caso o per improvvisa necessità (ma quale necessità poi?).

Di queste letture frammentarie, soprattutto riguardo i titoli di poesia – tra i più facili da acquistare e da non leggere – mi rimane un’impressione, un piccolo ricordo, un’idea magari sbagliata, ma che si somma alle altre che costituiscono la mia “biblioteca interiore” – niente di pomposo, è una biblioteca mal assortita e pure piena di spazzatura.

Ho pensato a questo accumulo un po’ insensato, di schegge di opere, di frasi e di parole, il giorno in cui ho letto sul giornale della morte del poeta Giampiero Neri, la scomparsa del quale mi ha dato un senso di spiazzamento doloroso come se fosse una persona che conoscessi davvero nella realtà.

Ero e sono affezionato ai versi di Giampiero Neri, che si sono impressi facilmente nella mia confusione mnemonica perché sembrano, trasferiti in una forma compiuta (e perfetta), i brevi brani che rammento dei tanti libri comprati e appena sfiorati, e poi smarriti in uno stato in cui la “smemoria” li conserva come se fossero immagini oniriche, facenti parte di un sogno che un po’ mi appartiene e un po’ no.

Giampiero Neri, dicevo. Leggo proprio una poesia sulla memoria, aprendo a caso la silloge Allo stesso luogo (ripescato in un Oscar che raccoglie testi dal 1960 al 2005). Scrive Neri che, al contrario dell’acqua del fiume che si disperde contro corrente vicino alla riva, “la memoria fa un cammino a ritroso / dove una materia incerta / torna con molti frammenti”.

Così ritornano, nei versi dei suoi testi spesso prosastici e composti da poche sillabe o da brevi paragrafi, una colonna di soldati che risale un ripido bosco e il grattare della zampa di un gatto, il ticchettio di un orologio Berthoud che segna ore (forse drammatiche) nel ’43 e un treno carico di operai…

Spetta al lettore, anche se è un lettore distratto come me, riempire gli spazi o connettere i puntini, come in quei vecchi giochi della Settimana Enigmistica, ma la poesia di Neri non è né gioco né enigma, l’enigma è piuttosto la vita che abbiamo davanti oppure alle spalle.

Leggendo i versi di Neri posso anche non connettere un bel niente – forse è una fatica sprecata – ma lasciare che le parole accendano una piccola luce, magari dalle parti di Como in un tempo di guerra…

Ho già capito che quella storia, servita a lacerti da un narratore in apparenza imperturbabile, non potrò mai conoscerla fino in fondo. Quella storia, forse una sola e carsica nei libri di Neri, fatta di immagini e di oggetti che appaiono e scompaiono, adesso resta lì, da qualche parte, nel disordine della mia testa e nelle cataste di libri sugli scaffali di casa, insieme a tutto quello che io non so della mia vita.

***

Dopo aver lasciato il lavoro e poiché non avevo finalmente più niente da fare, ho incominciato a camminare per Milano con la mia piccola Bughi. Certe volte, io e Bughi perlustravamo strade e quartieri fino ad allora ignoti, di cui conoscevo a malapena il nome e, se vi ero passato, lo avevo fatto di fretta.

Per questo, nei nostri lunghi giri a piedi siamo finiti a volte in piazzale Libia, nota per un libro di Giampiero Neri e perché legata alla storia complicata e affascinante dei due fratelli Pontiggia – dei due, essendo passato per Mondadori, mi era più famigliare il Peppo (lo sentivo sempre chiamare così, da conoscenti veri o presunti tali).

Comunque. Non avevo certo intenzione di citofonare all’appartato Giampiero Neri e di rompergli le scatole, mi piaceva piuttosto perlustrare la quotidianità di un luogo, di una piazza, che aveva per genius loci un grande scrittore – posto che esistano i genii loci, così come esistono i local heroes; è più certo che esistono i grandi scrittori. Piazzale o Piazza Libia “con i suoi duecento alberi, platani in prevalenza ma anche pini e arbusti di melograno, forsizia e altre specie”.

In quei giorni, avevo appena letto la storia della cagnetta Lilli in quel folgorante brano di Non ci saremmo più rivisti (Interlinea) e mi è capitato di sfogliarlo seduto su una panchina di piazzale Libia, sperando forse di incontrare Neri insieme a Lilli (ritornata con lui nonostante l’addio).

Di quei giorni, delle parole e dei versi di Neri, mi rimane una catasta di libri e libretti (mi manca scopro oggi qualcosa edito da Ares)… Mai come quando finisce una vita, anche se lunga, anche se fortunata, i libri appaiono desolatamente inutili.

Quelli di Neri lo sembrano ancora di più perché con essi il poeta ha lottato garbatamente e inflessibilmente contro la dimenticanza del mondo, spesso in difesa di cose considerate altamente dimenticabili: posti e fatti, oggetti e persone non illustri – il signor Fumagalli, per esempio – e i tanti animali di una personale etologia – sia elefanti sia lumache… Cose vive e inanimate che appartengono al prezioso e sicuro lavoro di Neri sulla scrittura e sulla memoria, in un solitario accumulo di “diamanti e detriti” che adesso restano a brillare (anche i detriti, certo!) nelle pagine…

Nel momento del distacco la Lilli, questo era il suo nome, aveva tentato di non farsi prendere e mi aveva lanciato uno sguardo che non potrò dimenticare. Pieno di paura e di sentimento, soprattutto umano. Non ci saremmo più rivisti” (da Non ci saremmo più rivisti, Interlinea)

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