“Ero un cane illegittimo in un mondo di cani“. Così pensa Béla, monello di campagna, vestito di stracci; il piccolo eroe di Tentazione di János Székely (traduzione di Vera Gheno, Adelphi) è figlio di padre ignoto e di madre indigente, la quale s’ammazza di fatica facendo la cameriera a Budapest per spedire soldi a zia Rosika, la strega che alloggia Béla in una stamberga con altri angariati mezzi orfani.
“Cane tra cani”, pensa il bambino, con improvvisa coscienza di sé, prigioniero della storia spicciola dell’Ungheria del primo Novecento, in un paesino appena sfiorato dalla grande Storia. Ma Béla, animale stordito di fronte all’infelicità, capisce anche di essere preda dell’estrema umiltà insegnata nei secoli ai contadini ungheresi. Quando gli capita di essere accudito o apprezzato, inaspettatamente piange e bacia mani, prova una gratitudine da pezzente di fronte a ogni possibile padrone.
Basta. Béla sa bestemmiare molto bene e ribellarsi, fiero e indomito per carattere e necessità: tra un precipizio e l’altro scoperchiato dalla miseria, tra i sadismi di Rosika e lo spettro del carcere, riesce a mettere piede – un piede nudo, poiché non ha scarpe, e non avrà mai le scarpe giuste come di norma accade ai reietti – a scuola, per imparare a leggere e scrivere. Ha capito che “…un povero rimane un cane se non studia” – i “cani” sono curiosamente nominati di continuo in queste pagine, come sinonimo di ultimi del mondo, spesso in versione bastonata o rognosa, persino in un proverbio ungherese che Béla vorrebbe usare come titolo per la sua prima raccolta di poesie: “chi non ha un cane deve abbaiare lui stesso”; mentre è un cane in carne e ossa, il nobile levriero russo Caesar, a fornire al ragazzino per interposta padrona un insperato guadagno e un’imprevista emozione.
Comunque. Un maestro burbero e alcolista – il primo personaggio adulto parzialmente positivo ad apparire nel romanzo – ha raccontato a Béla che “Dio ha nascosto in giro per il mondo la felicità degli uomini come si usa fare a Pasqua con le uova colorate”. Béla non può credere in Dio, ma fiuta la felicità, e gli capita che se la senta addosso nel modo semplice e quasi animalesco di chi si scopre individuo (uno tra i tanti, ma uno!), in una notte di Capodanno, camminando per i ponti della Budapest degli anni Venti.
Béla, giunto a Budapest, vive e cresce dividendosi fra due estremi: Újpest, il miserabile quartiere in cui abita con la madre, dove può capitargli di litigarsi il letto con Manci la prostituta, e il lussoso albergo in cui trova lavoro come non salariato apprendista fattorino (da “cane” diventa boy, pur restando “proli”, proletario) – questa circostanza logistica, alberghiera, ha evocato, accanto agli evidenti fantasmi dickensiani e alla “David Copperfield crap“ di holdeniana memoria, una parentela di Tentazione con le pagine e le susseguenti scene cinematografiche di Grand Hotel della proto-bestsellerista Vicki Baum: nel 1929, l’austriaca aveva avuto il merito di ritrarre al suo apparire la moderna folla solitaria che entra ed esce da una porta girevole…
Comunque. Nelle ottocento pagine di Tentazione – pubblicato per la prima volta nel 1946 in Gran Bretagna con lo pseudonimo John Pen – János Székely si rivela uno scrittore sofisticato e popolare a un tempo – e non per caso, vantando una notevole pratica nell’industria del cinema. Ma solo in superficie, pro forma, Székely ammicca nel suo romanzo agli artifici del feuilleton (addirittura hollywoodiano) a tinte forti, né lascia spazio a facili moralismi socio famigliari o all’edificazione d’animi da racconto di orfani del tempo che fu. Quella di Székely è, almeno nei capitoli più riusciti (tutta la prima metà del libro), una feroce e ironica canzone di gesta – e diventa quasi una canzone “di classe” – di un ragazzo ribelle e irredimibile, il “cane”, si diceva, che si trova a far parte dei “proli”, ovvero di un affannato e massacrato proletariato. Di contro sfilano i borghesi, assai timorosi del comunismo, in una forbice divaricatissima di censo e comportamenti che esalta quasi in maniera caricaturale (cioè post espressionista) la differenza tra i poveri e i ricchi, “i grassi macellai asmatici” legati al regime di Miklós Horthy, dal 1920 alla testa dell’Ungheria fascista uscita dal crollo dell’Impero.
In Tentazione, János Székely ha mescolato autobiografia e finzione di una vita che è e sarà movimentata. A 18 anni, sta a Berlino dove con il nome di Hans Székely comincia a scrivere film muti. Lavora per registi di primo piano e di grande inventiva, basti fare i nomi di Julien Duvivier, di John May, del nostro Carmine Gallone. Nel 1938 lo troviamo negli USA: mescolato alla diaspora europea dei suoi connazionali, apprezzato da Ernst Lubitsch e ribattezzato John S. Toldy, serve bene Hollywood e nel 1941 vince un Academy Award (un Oscar!) per la storia di Arise, My Love, pellicola interventista e allora molto attuale sulla guerra di Spagna – tra gli sconfitti di quell’anno, per dire, c’è Chaplin candidato con il soggetto originale de Il grande dittatore. Tentazione invece non ha lo sperato successo: János Székely si trova paradossalmente indesiderato nel suo Paese d’origine e sospettato di simpatie comuniste negli Stati Uniti dell’era maccartista. Lo scrittore si sposta in Messico e torna in Europa, a Berlino Est, solo nel 1957. Muore un anno dopo, prima di lasciare traccia di sé alla DEFA, lo studio cinematografico statale della DDR, e prima di rivedere Budapest… La lettura di Tentazione ci invita a pensare che di János Székely è opportuno saperne di più.