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Acido lattico. Intervista a Saverio Fattori su correre, scrivere, vivere

Saverio Fattori ha scritto con Acido lattico un romanzo ibrido, anzi multiforme – può sembrare un memoir e un saggio e svelarsi poi un noir – partendo dalla storia di un atleta del nostro tempo. Seregni Claudio, mezzofondista, “uno che fa i cinquemila”, “uno che non si accontenta”, e ha una tabella di corsa pratica e mentale ferrea e sofisticata (in ogni senso). I prodotti farmaceutici ingeriti, legali e illegali, dai nomi difficili e dagli effetti svariati, completano una disciplina del corpo o, se preferite, dell’anima nel caso esistesse. Comunque: Acido lattico è tornato in libreria per CN editore, il marchio tascabile di Oligo – la prima edizione per Gaffi risale al 2008 ma il romanzo è stato di recente rilanciato da una lettura su Rai Radio 3.

Comunque: Seregni Claudio indaga i sogni di gloria suoi e degli altri atleti, legati per avverarsi alla più labile fortuna, di alcuni di loro legge le gesta in un vecchio numero di Atletica sprint del 1993. Che fine hanno fatto i promettenti ragazzi lì intervistati? Hanno vinto o perso l’occasione di vincere e, nel caso, perché? L’atletica è pratica spietata, che non ha una serie B. O ce la fai o no. Seregni Claudio è affascinato/osssessionato dalle promesse disattese, dalle vite posteriori al mancato successo su pista o su strada. Vede già in sé uno dei tanti “talenti dispersi”?

Seregni Claudio scrive e-mail ai campioni mancati, mentre conduce una vita a cronometro in un complesso e molto ambiguo equilibrio con chi lo allena, e si esalta spiegando il rito autarchico dell’“autotrasfusione”. Che sia davvero, come impietosamente si autodefinisce, “un maniaco dell’atletica dalle psicosi multiple, amplificate dall’uso di stimolanti”?

Di certo, quando si palesa il fantasma di Clara Arlati, una ex atleta che ha fallito, Seregni Claudio è preda di nuove incertezze e domande, da affrontare con un’indagine. Ma – e la citazione si adatta a molti degli episodi narrati in questa educazione alla vittoria (o alla sconfitta) – “Dove sarebbe l’etica di questa storia? La lezione? Zero. Solo un elenco di fatti e di variabili”, che raccontano la vita risucchiata dall’“inferno della perfezione inutile”.

Abbiamo rivolto alcune domande a Saverio Fattori, scrittore molto riconoscibile per poetica, di cui ci eravamo già occupati per Finta pelle (Marsilio).

Saverio Fattori

C’è un sentimento di onnipotenza nella testa del tuo long distance runner? Non per niente, come racconti, gli atleti non sopportano di essere malati…

“Piuttosto Claudio Seregni non sopporta di essere un umano medio, il suo corpo è al centro del libro, spesso il corpo è importante nei miei libri, in realtà il suo è un organismo che ha già geneticamente caratteristiche non comuni, primeggiava nelle categorie giovanili. Sa di essere forte, ma non abbastanza, non accetta i suoi limiti, ha capito che non ha margini di miglioramento, prende la decisione di doparsi e non ha più ripensamenti. La malattia e la morte sembrano l’antitesi di prestazioni atletiche di altro livello. Non a caso ci fa uno strano effetto sapere che un campione sportivo si è ammalato e magari deceduto in seguito a una malattia, come se li ritenessimo meno fragili, quasi dei super eroi. In realtà a un certo punto la chimica invece di farlo correre più forte inizia a dare segnali contraddittori. Ma il lettore ne saprà di più”.

Le storie di tanti ragazzi per lo più sconfitti costellano il romanzo: sono vere o soltanto verosimili? Perché ti interessano di più gli sconfitti? Donato Sabia, per esempio, fragile ottocentista, piegato dagli infortuni.

“L’atletica è uno sport davvero spietato, o comunque può esserlo. Più ti alleni in qualità e quantità, più tiri la corda, e qualcosa può saltare improvvisamente: un tendine, un muscolo, magari una microfrattura da stress, malanno tipico di chi macina davvero tanti chilometri. Gelindo Bordin, Campione olimpico di maratona a Seoul ’88, arrivò a carichi di lavoro di oltre 250 chilometri in una settimana, 35 al giorno. Donato Sabia era un grandissimo ottocentista, giunse quinto alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, ma la sua carriera avrebbe potuto essere più vincente se non fosse stato funestata da infortuni. Stesso allenatore di Pietro Mennea, Carlo Vittori, si vagheggiò di una sfida in allenamento su una distanza ibrida tra i due campioni, ma non fu mai fatta, forse si temevano. Gli allenamenti per gli 800 metri sono delicatissimi, sei tra la velocità e il mezzofondo, i lavori di finalizzazione prima di una gara sono davvero rischiosi, a livelli altissimi si parla di correre tre frazioni di 500 metri attorno a un minuto. Gennaro Di Napoli, altro talento cristallino, ancora detentore del primato italiano dei 1500 metri, Campione mondiale indoor sui 3000 metri, ha rivelato di avere gareggiato spesso anche in grandi manifestazioni con grossi infortuni in corso, come arrivava al top della forma si rompeva. Non è uno sport facile. Poi ci sono i numeri che danno le sentenze, numeri che si riferiscono ai piazzamenti, ma soprattutto riferiti ai tempi cronometrici, capita che un tempo descriva meglio la prestazione rispetto a un piazzamento, è uno sport fatto di numeri. Capisco che sono cifre difficili da decifrare per i non addetti, ma fidatevi, si parla di motori umani straordinari, incredibili. In Acido lattico ho sfidato il lettore, di numeri ce ne sono, ma credo che nella narrazione vengano ben digeriti”.

Il doping compare dapprima come una pillolina scambiata in spogliatoio, il vasodilatatore Monores, ed è solo l’inizio. È davvero necessario doparsi per un atleta del nostro tempo? O meglio: perché ti interessava scrivere una vicenda di sport e doping?

“Il principio attivo del Monores è il Clembuterolo, la biondissima e bellissima velocista tedesca Katrin Krabbe fu pizzicata per questa sostanza, fu un brutto colpo per i tedeschi, sono quelle atlete che colpiscono l’immaginario per la perfezione del gesto e dell’estetica, le fidanzatine ideali di una nazione, belle e brave. Poi tutto crolla quando vengono trovate positive. In realtà il Clembuterolo non credo trasformi un asino in un cavallo di razza, per quello l’ho messo come primo step nel libro. Il doping è ben presente nello sport a tutti i livelli, ma dire che tutti gli atleti forti sono dopati è una grande idiozia, e si fa il gioco di quelli finiti nella rete dell’Antidoping (la Wada è l’organismo internazionale che si occupa della lotta al doping), che si fa sempre più raffinata nelle indagini, grazie al passaporto biologico e ai controlli a sorpresa. Non sono affatto tutti dopati gli atleti forti, anche se presumo la tentazione possa sussistere. Ma detesto il ‘colpevoli tutti’, che diventa ‘colpevole’ nessuno. Sarebbe un errore gravissimo cedere a questa versione dei fatti”.

Che rapporto ha per te l’atletica agonistica con lo scrivere?

“Alcuni dicono che mentre corrono riescono ad avere idee creative, a me non succede, ma non posso dubitare che a qualcuno accada questo miracolo. Per me la corsa è una fatica assoluta che non tollera intromissioni. Se ho pensieri, ho pensieri brutti. Murakami ne L’arte di correre ha scritto cose interessanti sul rapporto tra questi due elementi, invito a leggerlo. I giapponesi non capiscono come uno scrittore possa essere anche un maratoneta, lo vorrebbero poeta maledetto; invece, lui è un ascetico atleta dilettante. In realtà racconta che le zone oscure nel cervello le ha, e con la corsa, con la disciplina a essa connessa, le tiene sotto controllo. È una tesi interessante e potrei condividerla. Ma nel mio caso con la scrittura si torna al dualismo amoreodio, appunto come nella corsa, due cose che non danno da vivere, ma che nemmeno mi sento di relegare alla categoria hobby. Detesto l’espressione hobby, corsa e scrittura chiedono davvero tanto e restituiscono quasi sempre meno del dovuto, ma si rimane attratti, come si rimane attratti da una amante che ci fa soffrire, e che in fondo non è nemmeno bellissima se la guardiamo la mattina e struccata”.

Oltre la corsa, per chi fa agonismo, per chi spera di essere “pescato” per un’Olimpiade, resta poco. Sembra che l’unica occupazione spirituale che sopravvive sia guardare la tv insieme a una fidanzata ottusa, con cui si fa l’amore in giorni fissi… È il tuo pessimismo o il tuo realismo? Scrivi: “Sport estremi per gente mediocre”.

“Allora, io estremizzo molto, tra l’altro per me la narrativa non deve avere un rapporto stretto con la verità, ma la vita di una atleta di alto livello non può avere poi tante variabili. Calcola che i professionisti fanno dai due ai tre allenamenti al giorno, tutta la giornata è imperniata su questo, fare il bi-giornaliero significa che dopo pranzo devi fare il riposino per ricaricarti le batterie, e la sera devi rigare dritto, devi quasi sempre rigare dritto. Hai vent’anni e fai il riposino al pomeriggio, e agli amici devi avere la forza di dire tanti no. Però devo pure ammettere che intervistando per la rivista Correre atleti importanti di varie epoche ho conosciuto gente davvero in gamba, intelligenti, pieni di interessi e con degli aneddoti in carriera degni di Amici miei. Al mio personaggio i sacrifici non pesano affatto, si vanta di essere fuori dal gregge degli amici al pub, di avere un obbiettivo alto, ben definito, lui è un atleta, nient’altro che questo, non riesce a incarnare altre identità”.

Perché hai sentito il bisogno di colorare la storia di noir?

“Posso essere onesto? Qualche lettore mi ha detto che appunto, non sentiva il ‘bisogno’ della parte misteriosa del romanzo, puntualizzando che l’osservazione aveva valenza di complimento, ossia il testo stava su molto bene lo stesso, senza la sterzata al genere noir. Ma il mio non è stato un escamotage furbetto, o una strategia per accaparrarmi gli amanti del genere, il mio protagonista sprofondando in questo gorgo riemerge non dico una persona migliore, nei miei libri c’è sempre poca redenzione, però inizia ad avere qualche dubbio sulla sua scelta di doparsi e di legare la propria esistenza unicamente allo sport, ha uno scossone che lo distrae dalla fissità del pensiero. Ma non è detto che una nuova consapevolezza lo farà poi stare meglio”.

Perché hai scelto un protagonista (a tratti) antipatico? Penso per esempio al razzismo verso i corridori neri (burundesi e africani).

“Antipatico, direi che è un eufemismo. È acido, appunto. In realtà si va oltre il classico razzismo. Lui odia gli africani, come odia qualunque etnia. Lui odia tutti, come si evince da un incipit che assomiglia all’elenco che Edward Norton recita rabbiosamente ne La 25esima ora. Il fatto è che gli atleti africani sono molto forti e a lui non piace perdere. È una faccenda dannatamente semplice. Poi ci sono temi più complessi che nel libro accenno, a volte lo spettatore medio fatica a identificarli gli atleti africani, a meno che non si tratti di fuoriclasse assoluti come Eliud Kipchoge, Campione olimpico e primatista mondiale di maratona, il primo uomo che in una gara non ufficiale ha rotto il muro fantascientifico delle due ore. L’identificazione con il campione risulta più faticosa e gli sponsor non sono molto interessati. Poi c’è la faccenda dei ragazzi nati in Africa ora italianissimi, naturalizzati, ragazzi che hanno fatto le scuole nel nostro paese e spesso hanno inflessioni dialettali, inflessioni venete, romane, toscane, e che non sono mai stati nemmeno una volta nei loro paesi di origine. Però a me qualcuno in privato ha scritto che non riesce a gioire pienamente delle loro vittorie, non riesce a gioire totalmente come nel caso di un atleta bianco e con genitori italiani. Sono questioni delicate che rimangono sottotraccia, come nel caso di messaggi privati, ma emergono spesso anche su pagine Facebook dedicate all’atletica”.

Corri da solo o ti senti in qualche modo dentro una corrente di scrittura?

“Amici nell’ambiente della scrittura, non ne ho, faccio vita piuttosto appartata da questo punto di vista. Ho iniziato a scrivere molto tardi, verso i trentacinque anni dopo aver letto L’estensione del dominio della lotta, credo il primo libro di Houellebecq tradotto in Italia. Mi sento vicino a Trevisan, con lui ho fatto un corso di drammaturgia, vorrei una voce interna ai miei libri ruvida come la sua, anche Falco mi piace, lo sento sulla mia lunghezza d’onda, Bregola, soprattutto con gli ultimi suoi tre libri, poi c’è gente come Moresco, Tuena, due monumenti inavvicinabili. Sono arrivato alla scrittura con la testa piena di cinema, teatro, musica, tutto consumato compulsivamente, senza mai approfondire davvero nulla, uno zampettare disordinato e isterico. Mi piaceva la voce di Moretti dei suoi primi film, e che poi ho ritrovato nell’ultimo”.

Come mai hai deciso di ripubblicare Acido lattico?

“Era un mio libro esaurito che pubblicai nel 2008 per Gaffi editore, poi a febbraio è stato letto integralmente a Rai Radio 3 nella rubrica Ad alta voce, e di colpo l’interesse si è riacceso, la gente lo cercava inutilmente, va detto che penso che l’intento di Fahrenheit sia proprio quello di ridare vita a libri non più in catalogo. Devo dire che il tema del doping e del corpo in generale non è certo obsoleto, l’ossessione per le performance fisiche è destinato ad aumentare. Io temevo che fosse un testo troppo tecnico per gli ascoltatori di Radio 3, invece è stato compreso il senso dell’operazione, dentro al testo ci sono i mei temi preferiti: il fallimento, l’ossessione per il corpo, le dipendenze, l’identità, temi che vanno ben oltre l’atletica leggera. Comunque il doping appassiona sempre, è la parte oscura della luna e ci attira, poi è tornato un tema di cronaca anche dopo la docu-serie sul caso del marciatore Alex Schwazer prodotta da Netflix”.

Perché correre è diventato così popolare tanto da essere diventato una moda, che si intreccia a consigli dei vip sui giornali o alle iniziative benefiche?

“Corrono in tanti, eppure si corre sempre più piano. I giovani hanno abbandonato uno sport invero durissimo, non dimentichiamolo mai, le specialità del mezzofondo e fondo sono affascinanti, possono dare felicità, ma è una fatica che non tutti sanno gestire. Mentre i ragazzini smettevano o nemmeno iniziavano, i loro padri e nonni si sono gettati a capofitto nella mitologia di una parola, la parola maratona, i fatidici quarantadue chilometri e spiccioli, e hanno iniziato a correre con grande entusiasmo. È positivo, molto positivo che le persone si prendano cura della propria salute con una sana attività aerobica, ma per quanto riguarda la corsa ad alto livello mancano all’appello diverse generazioni, soprattutto in campo femminile. Abbiamo qualche eccellenza a livello mondiale, ma mancano tutti quegli atleti di livello medio alto che rendevano spettacolari anche le gare locali. Quando feci il mio personale (per “personale” si intende il miglior risultato su una determinata distanza) di mezza maratona nel 1997, arrivai 55esimo, quest’anno nella stessa gara sarei arrivato terzo assoluto… Qualcosa evidentemente è andato storto negli ultimi decenni. I vip corrono come fanno i comuni mortali, per le stesse motivazioni, ma evidentemente a qualcuno il Social media manager ha consigliato di mostrare questo lato sulle piattaforme social, come gli potrebbero suggerire di fare un video mentre preparano un piatto tipico. Ma va pure detto che le sensazioni post allenamento sono molto piacevoli e si innescano meccanismi di gioiosa dipendenza, per esempio lo scrittore Paolo Nori corre praticamente tutti i giorni, credo non sia una posa ma una esigenza. Se entri in un certo stato mentale quando salti un allenamento ti senti non a posto, hai piccoli sensi di colpa”.

Saverio Fattori (Molinella, 1966) ha pubblicato Alienazioni padane (2004), Chi ha ucciso i Talk Talk? (2006),  12:47: strage in fabbrica (2012), tutti per Gaffi, L’errore più geniale (Meridiano Zero 2019), Finta pelle (Marsilio 2020). Acido lattico (Gaffi 2008 e ora CN 2023). Collabora con il mensile Correre.

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