Che l’amico tedesco di Taxi Driver sia L’amico americano (Der Amerikanische Freund)? Il film di Wim Wenders, 1977, più giovane di appena un anno rispetto al capolavoro di Martin Scorsese, è riproposto nelle sale in questi giorni. Livido come Amburgo, la città in cui è ambientato, è un gioiello noir tratto dal libro di Patricia Highsmith Ripley’s Game, il primo di una saga di quattro romanzi dedicati alle avventure del criminale Tom Ripley, elegante, amorale, inafferrabile. In altre parole, scritto per il cinema, come dimostrano le molte trasposizioni su grande schermo, Delitto in pieno sole (Plein soleil) di René Clément con Alain Delon e Il talento di Mister Ripley (The Talented Mister Ripley) di Anthony Minghella con Matt Damon solo per citarne due.
Il fil rouge che lega Scorsese e Wenders non si limita al delitto, è anche letterale, rosso per davvero, un colore che prima di esplodere si fa attendere, si palesa attraverso piccoli dettagli. Entrambi i film in principio disegnano i volti dei protagonisti in maniera “lattiginosa”, nessuna vivacità, anche i vestiti sono anonimi. Travis e Jonathan rappresentano caratteri molto diversi, uno tassista solitario, giustiziere metafisico, l’altro corniciaio sposato e con un bimbo piccolo, killer per bisogno. Eppure tutti e due, per validi motivi, se fossero un sintomo, sarebbero quella febbriciattola implacabile, ostinata, bianca.
Travis (Robert De Niro) in una scena molto famosa scioglie aspirina nell’acqua, soffre di emicrania, patisce l’insonnia, la vita alienata in mezzo al caos tossico di New York. Jonathan (Bruno Ganz) ha la leucemia, lotta contro fantasmi di morte e si presta al gioco di Ripley non senza rovelli interiori. Questa loro sofferenza malata è resa magistralmente con una fotografia dove la luce può solo essere pallida, invernale, nel caso di Taxi Driver persino quando è estate.
Le loro case odorano di chiuso e stantio. Il tugurio metropolitano di Travis è regno di incuria e povertà; nell’appartamento della famigliola di Jonathan, solo la presenza del piccolo Daniel è vitale, ma sembra entrare la nebbia addormentata del porto di Amburgo, le ruspe lavorano per abbattere, e quando il corniciaio immagina i pensieri del figlio da adulto, pensa: «Mio padre portava i baffi, abitavamo in una casa vicino al porto, che poi è stata demolita».
Wenders rifiuta il nichilismo totale, cerca salvezza almeno nelle risate che sanciscono la strana amicizia virile tra Tom e Jonathan, nel laboratorio dove tutto è quiete, forse troppo, mentre in Taxi Driver i colleghi di Travis non ridono, ghignano come iene.
A un certo punto si fa strada il rosso, in tutti e due i film. Rosso sangue, quello malato di Jonathan e quello che sparge Travis nella famosa mattanza. Ci si avvicina a poco a poco al contrasto tra febbriciattola lattiginosa e azione purpurea, i due registi non hanno fretta. Nell’Amico americano è il colore di una lampadina nella magione di Tom, le lenzuola di raso tra le quali beve whiskey. Un palloncino oblungo nelle mani di un gangster, il cappotto di Marianne (Liza Kreuzer) la moglie di Jonathan, il disegno sulla tappezzeria del divano.
In Taxi Driver, rossi i semafori, rossa la spia luminosa sul taxi, rossa infine la morte, a suon di proiettili impazziti. E pensare che la scrittrice e umorista Fran Lebowitz, in un’intervista al Los Angeles Times, ha rivelato che l’amico Martin odia la resa dei rossi nella sua opera d’arte: «È ancora arrabbiato. Mi ha detto numerose volte: “Sai cosa rovina Taxi Driver? Il colore rosso. Lo studio non mi darebbe abbastanza soldi per correggere il colore rosso, ed è per questo che è orribile». Lebowitz, ovviamente, gli ha risposto quello che gli risponderemmo in coro tutti: «Sai cosa c’è che non va in Taxi Driver, Marty? Niente».
Nella foto di apertura, De Niro in Taxi Driver