Il “paradigma indiziario”, occupandosi per programma di inezie e scarti, di sviste e minuzie, volgendosi al basso, permette di accostarsi alla conoscenza dei più diversi fatti. Così argomenta Carlo Ginzburg in Spie, breve saggio, apparso per la prima volta ne La crisi della ragione (1979, a cura di Aldo Gargani).
Lo studioso torinese pone al centro del sapere – seppure un sapere scientificamente “elastico” e “debole” come usava ai tempi – il metodo d’indagine di una singolare triade composta da Sherlock Holmes, Sigmund Freud e Giovanni Morelli. Quest’ultimo, veronese, morto nove anni prima del Novecento, era un bizzarro ma pratico studioso di frammenti d’arte: il “metodo Morelli” per l’attribuzione dei quadri prevedeva di concentrarsi sugli infimi particolari di un’opera, un occhio, il lobo di un orecchio, le unghie di un personaggio, dettagli che non mentono.
La conoscenza procede dunque per indizi e lapsus, per piccoli “segni” – e quando Ginzburg scrive a fine dei Settanta siamo ancora in temperie “semeiotica” – da sottoporre nel caso all’onere della prova. E però, in un umile ma vertiginoso stacco di paragrafo, Ginzburg è capace di tornare indietro di secoli e di mettersi in ginocchio nel fango assieme a un cacciatore del Neolitico – spiacerà forse agli animalisti, ma lo studio di un’orma, in guisa di metonimia e non di metafora, da parte di un antico predatore può innescare il procedimento del conoscere così come quello del potere – mai come negli anni Settanta sapere e potere, nella speculazione filosofica o antropologica, sono andati a braccetto.
In equilibrio o in bilico tra razionalità e irrazionalismo, rivolto ad analisi morfologiche in soccorso a quelle storiche, scrittore di microstoria applicata a figure trascurate (il mugnaio Menocchio sottoposto a processo inquisitorio de Il formaggio e i vermi, 1976 e 2019) e insieme di sguardi telescopici ai primordi della civiltà indoeuropea, Ginzburg offre una delle più avvincenti prove del suo originale percorso intellettuale: Spie viene riproposto oggi tra gli undici saggi di Miti emblemi spie. Morfologia e storia, pubblicato da Adelphi in edizione riveduta e accresciuta rispetto all’edizione Einaudi del 1986 – in più, nel nuovo volume sono compresi un inedito, tre traduzioni di testi apparsi all’estero e una postfazione.
Ho incominciato leggendo l’inedito, Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari, e ho conservato per dopo le altre incursioni di Ginzburg, per esempio la ricostruzione di un processo di stregoneria nel modenese, che anticipa o riecheggia la descrizione del sabba di Storia notturna (1989 e 2017), oppure laddove svaria, garantito dal procedimento indiziario, dall’arte all’ideologia, dall’erotismo delle “poesie” di Tiziano alle ambiguità di Dumézil riguardo l’iconografia nazista (ospite a sorpresa Ernst Bloch: si tratta di uno dei saggi più attuali della raccolta, nonostante i quarant’anni d’età).
L’inedito parte appunto da L’uomo dei lupi freudiano e mostra bene il procedere dello studioso torinese. A Ginzburg, il celebre sogno dei sette lupi, interpretato dal padre della psicoanalisi, richiama alla memoria un sotterraneo materiale folklorico che Freud non coglie.
Ovvero: un contenuto mitico che ricorre, tra l’altro, nelle credenze di una setta cinque-secentesca friulana, ritratta da Ginzburg in un fortunato saggio (I benandanti, 1966 e 2020) – l’Uomo dei lupi, invece che qualificarsi come un lupo mannaro o un iniziato di gruppi simili, risolve quindi freudianamente la sua chiamata in una nevrosi da lettino.
Comunque. Il caso riapre il dilemma di Freud riguardo la scena primaria – nell’accezione di seduzione reale o immaginaria patita nell’infanzia da parte di adulti – e insieme il dilemma tra eredità filogenetica ed esperienza personale. Ecco il punto per Ginzburg, la domanda clou che percorre tante ricerche: siamo noi che pensiamo i miti o sono i miti che pensano noi?
Se scegliamo la seconda opzione, e la variante irrazionalistica di Lévi-Strauss, resta vivo il mistero e la povertà del nostro io interpretante, il quale riesce in parte a definire ma non a esaurire un problema. In sintesi: scartati anche gli approssimativi archetipi junghiani, non basta un’eredità storica precisa per ricostruire la vicenda dell’Uomo dei lupi. Ecco di nuovo: lo studioso torinese è dunque al lavoro, come più che spesso gli accade, nella parte meno canonica e maggiormente avventurosa della conoscenza.
Gli scritti di Ginzburg prevedono sempre una sfida che, essendo pluridecennale, si è rivelata come una ponderata scelta di metodo. Stabilendo connessioni tra fenomeni a prima vista privi di legami, attraversano aree di ricerca e metodologie solo apparentemente refrattarie a un discorso unitario. Penso ancora a Spie, penso al testo sull’Uomo dei lupi mancato lupo mannaro, dove la morfologia, tanto importante in questi saggi, è simile a “una sonda, per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della conoscenza storica”.
Arricchiscono la lettura – le sfide di Ginzburg – tante pagine di note e un interessante apparato iconografico.
A libro chiuso, resta un pensiero vagamente molesto, che mi ha a tratti accompagnato nel corso della lettura e mi si è evidenziato nel momento in cui ho scelto un titolo volgarmente giornalistico per queste righe – intendo il “Carlo Ginzburg detective”. Mi domando se le rigorose ricerche di Miti emblemi spie, per quanto servite da una prosa sorvegliata (ma forse dopo Foucault non si può più adoperare il verbo “sorvegliare”), possano venir confuse con i tanti saggetti ibridi, di ispirazione più o meno scientifica ma di scrittura erratica (vagabonda, improvvisata), oggi piuttosto a la page – mi riferisco, senza impiccarmi a giudizi di merito, alle opere di un Daniel Mendelsohn o di un Benjamín Labatut, passando – perché no? – per il più recente e affabulatorio Rovelli – ibridi che stanno raccogliendo fortuna critica e un incentivo a inaugurare legami più stretti e meno costretti tra conoscenza e letteratura. Credo che Ginzburg sia su un’altra galassia in fatto di severità epistemologica, ma forse, dalla vitale corrente di cui sopra, potrebbe prendere invece che nocumento qualche vantaggio, almeno a livello di diffusione.
Credit: Carlo Ginzburg no Fronteiras do Pensamento Porto Alegre 2010 by fronteirasweb is licensed under CC BY-SA 2.0.