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Marco Rossari. Il Consul, l’alcol e il disamore all’ombra del vulcano

Marco Rossari (1973) ne L’ombra del vulcano (Einaudi), per la sua storia di fine amore si appella e si puntella a un venerabile fantasma letterario, il Console Geoffrey Firmin di Under the Volcano. Il Console – noto universalmente ma più che altro per la frase da bacio perugina “no se puede vivir sin amar” – è il mattatore dell’impervio libro cult di Malcolm Lowry. Lo scrittore-traduttore che dice io ne L’ombra del vulcano, cioè uno pseudo Marco Rossari, lo sta coraggiosamente volgendo in italiano nell’alcolico agosto milanese in cui, tra lui e la sua donna, è stato sancito un doloroso per quanto reciproco abbandono sentimentale.

Specchiando il suo mese di solitudine nella fatidica giornata in cui si svolge – e finisce al disastro – il capolavoro di Lowry (per la cronaca, è il giorno dei morti, il 2 novembre del 1938), Rossari accetta di correre un rischio: il suo romanzo – che narri fatti veri o verosimili o totalmente inventati, poco importa – a tratti si fa impossibile parodia, ovvero tentativo di improbabile imitazione, di Under the Volcano, specie quando lo squallido baracchino milanese sotto i piloni della tangenziale, dove il protagonista si rifugia ogni notte per bere, vorrebbe evocare per giustapposizione le bettole benedette/maledette di Cuernavaca, declamabili in accorata preghiera laica.

Sia chiaro: Rossari distribuisce su tutto, anche quando cerca il motto giusto nel giardino del sublime, anche quando imbocca la strada inequivocabile del patetico, una glassa di distacco ironico e di credibile umiltà (cosa assai diversa dall’understatement) – sia nella consapevolezza della volatilità degli amori, pure dei più grandi, sia nel riconoscimento di essere inabile a licenziare un romanzo all’altezza di quello di Lowry.

Un esempio di questa ironia – e di un raffreddamento della materia incandescente (lava?) di cui è fatto L’ombra del vulcano – è la riuscita creazione di un improbabile deuteragonista, una figura inermedia tra l’alto e il basso, l’amico chiamato Piccolo Console: impiegato delle pompe funebri, è anch’egli preda di sconforto sentimentale e “barcollante” in una deriva alcolica.

La materia è incandescente (lava!) perché tratta a rotazione, in brevi capitoli e paragrafi dove il presente e il passato sono virtuosisticamente mescolati, le stagioni dell’amore e il probabile martirio dell’alcol, entrambi impacchettati dentro una riflessione passionale sulla letteratura. “Per risponderti (a una lettera della donna, ndr) dovrei scrivere un libro. Forse è questo”. E non conta se a volte “…separarsi è trovare similitudini inutili, metafore stantie: specchi ciechi da scrittori pigri”. Non conta se, con crudeltà verso se stesso, Rossari possa pure ritrarsi così: “Il traduttore come replica mediocre dell’autore, anche nell’alcolismo”.

Resta lo stupore empatico del lettore per come lo pseudo Rossari sia vissuto e viva considerando un libro/i libri e l’ombra che gettano sulla nostra vita come “cosa salda”, saldissima, specialmente mentre si affaccia il ragionevole dubbio che, nonostante tutte le meravigliose menate sul Consul e sulla sua consacrata vena autodistruttiva, il massimo della comunicazione concesso ai mortali assomigli a un verso quasi animale, a quell’“Uli-uli-uli-uli… Mbaaaaaa” a lungo misterioso, che proviene tutte le mattine giù dal cortile.

A margine: la traduzione di Sotto il vulcano di Marco Rossari è edita da Feltrinelli. La cover di L’ombra del vulcano è @Ralph Gibson

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