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Fleming. In Al servizio segreto di Sua Maestà, lo spleen di Bond

Nella notte dei tempi si perde la nascita di James Bond o piuttosto quella del suo franchise, resistentissimo, che ha fatto di 007 un eroe multiforme cioè multimediale.

Da bambino, ho avuto figurine di Bond, modellini Aston Martin con sedili eiettabili, Bond-bambolotti, con le fattezze di Sean Connery e la licenza di uccidere il bambolotto cattivo di Oddjob, e mentre leggevo i fumetti di Bond (li ricordo sull’Intrepido), ho visto i primi film di 007 subendo il trauma salutare di veder spuntare dal mare una meravigliosa Bond girl in bikini bianco (Ursula Andress) e incassando lo choc di assistere al cambio di faccia cinematografica, cosa assolutamente irrituale, del personaggio Bond.

D’improvviso, Sean Connery se la filò e al suo posto piazzarono l’inespressivo bisteccone George Lazenby nella pellicola Al servizio segreto di Sua Maestà, di cui ho in mano oggi il romanzo, tradotto da Massimo Bocchiola per Adelphi.

Già perché c’erano, a monte del franchise, i libri di Ian Fleming, scrittore e militare inglese, che pose se stesso in un punto speciale della letteratura (popolare), discendendo (forse) dagli agenti segreti di Greene e Maugham e aprendo alla carica degli spioni imitativi, alti e bassi, dal compito Harry Palmer di Len Deighton al cialtrone SAS Malko Linge di Gérard de Villiers.

C’erano i romanzi alla base del meraviglioso franchise, e io li ho consumati quasi tutti da lettore imberbe nella leggendaria versione tascabile Garzanti – quella in cui ti si scollano e si perdono le pagine intanto che leggi… Ed ecco, forse ho sbagliato tutto nel riaffrontare l’elegante Bond di Adelphi – che ha fatto ripartire da capo la macchina dello 007 di Fleming – poiché (forse) il sistema Bond non va analizzato alla luce della storia del suo successo, in forma diacronica, ma semmai nell’Urtext in paragone sincronico con i detective del tempo. Solo così si capisce (forse) perché l’ingresso di Bond nell’agone letterario fu fragoroso.

Ian Fleming scrisse dal 1952 al 1964 dodici romanzi, più due raccolte di racconti, con protagonista l’agente segreto James Bond. Che detective c’erano in giro nei primi anni Cinquanta? Per lo più esteti raziocinanti muniti di lente d’ingrandimento, vecchiette inglesi, commissari bonari e cinici americani con l’impermeabile. Uno di questi, secondo un noto saggio di Umberto Eco, Le strutture narrative in Fleming (1965), era il nevrotico e disilluso Mike Hammer di Mickey Spillane di cui Bond superò psicoanaliticamente i traumi e i limiti morali, avventurandosi per la strada di un superomismo meccanico, asservito a efficaci schemi narrativi – e, aggiungo, godendo pure di gloria riflessa per la statura dei suoi nemici: in tempi di Cold War, l’agente segreto non caccia singoli criminali ma pazzi che vogliono distruggere il mondo.

Una delle coppie di opposti di cui si nutrono le storie di 007 è quella mai ben assimilata del Bond in gran spolvero e del Bond spleenetico. Lo 007 di Fleming ha un’anima assai più sensibile del suo parente cinematografico e, quando non è in azione, rischia di girare a vuoto come un qualsiasi depresso. In Al servizio segreto di Sua Maestà, terminata la divagazione francese del prologo e tornato in ufficio a Londra, dopo aver accarezzato l’idea delle dimissioni per manifesta inutilità dei compiti affidatigli, Bond partecipa con svogliatezza alla gara tra gli 00 per chi si porta a letto per primo la nuova segretaria, Miss Goodnight. E per forza.

Torno a pag. 29 della versione di Bocchiola. In una sera di stanca, approdato nel miglior hotel di Royale, immaginario luogo turistico in Normandia, Bond “andò alla finestra a guardare il mare oltre la promenade, chiedendosi dove avrebbe cenato e cosa avrebbe scelto di mangiare”.

È un momento di spaesata solitudine, la malinconia inaspettata di un uomo stufo della “religione francese fondata sull’epa”, una piccola défaillance legata forse a un lutto non lontano nel tempo e forse al bisogno di farsi due domande sulla vita. Ma passa subito, in poche righe. Bond decide di andare a Étapes nel locale “senza fanfare” che offre cibo schietto dell’amico Bécaud.

Poco lontano dai tavoli verdi in cui 007 giocò una partita mortale con Le Chiffre (nel primo romanzo, Casino Royale), si trova la pietra di un piccolo cimitero dove riposa l’amata (se poi Bond riesce ad amare) Vesper Lynd. Ma basta, la vacanza finisce e per fortuna si ripresenta il duro lavoro, altro lavoro, dopo quello già svolto in Operazione Thunderball, di cui questo romanzo è in qualche modo il sequel – la trilogia si completa con il seguente Si vive solo due volte. Ecco che si presenta la bella e fragile Tracy Di Vincenzo, con cui 007 perde un’improvvisata sfida in auto, e che lui subito incasella tra le ragazze ricche e disperate: Tracy riconduce Bond, oltre che al Casino, alla caccia grossa, con bersaglio Ernst Stavro Blofeld, capo della fantomatica Spectre…

Da quella piccola défaillance in poi, seguo un’altra pista, rileggendo il romanzo di Fleming. Non sorrido più delle scadute diavolerie tecnologiche del tempo che fu – Bond è munito di un cercapersone che funziona nel raggio di qualche chilometro! – o delle palesi ingenuità di trama: in pratica, Bond trova Blofeld chiedendo alle persone giuste (la mafia còrsa) l’indirizzo della residenza svizzera del criminale. Non mi metto neanche a scimmiottare le indignazioni del #meToo (Fleming non è certo Villiers), ma per una volta cerco l’umanità di Bond dietro il suo superomismo (di massa). Lo preferisco per esempio quando è poco a suo agio in questioni di nobiltà dinastica – ammettendo di essere un parvenu – anche se è sempre espertissimo, come molti colleghi investigatori, su tutto lo scibile del bon-vivre, dai cocktail ai carburatori della Rolls Royce, della psicologia femminile ai banchi nel gioco d’azzardo. Così, Al servizio segreto di Sua Maestà diventa un romanzo nuovo, che prepara, con un filo di nostalgia, a consumare il prossimo prodotto del lucroso franchise.

(Credit: Fleming, Ian Fleming by Paul Baack is licensed under CC BY 2.0)

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