Vade retro, prosaici! Non provateci nemmeno a sindacare sulla verosimiglianza di quel che si racconta in Dogman. Non è questo che conta, non è questo che ha mai interessato Luc Besson, che finalmente si ricorda e ci ricorda perché è l’unico europeo contemporaneo che è riuscito a girare film di genere proprio come si fa a Hollywood, andando alla pugna ad armi pari, ma con il suo touche.
Nikita, è cosa nota, vanta innumerevoli tentativi d’imitazione, è forse il noir più riuscito di fine Novecento: immagini paradigmatiche, sceneggiatura che fa scuola, Anne Parillaud azzeccata quanto Vivien Leigh in Via col vento o Julia Roberts in Pretty Woman. Insomma, un momento di grazia raro e prezioso, probabilmente unico. Tant’è che il buon Besson ne ha poi sbagliate di cose, vedi l’inutile Anna, ma con Dogman alza di nuovo la testa. Attenzione, qui c’è qualcosa.
“Ovunque ci sia un infelice, Dio gli invia un cane”, è la frase di Alphonse de Lamartine che campeggia all’inizio del film. Doug (Lincoln Powell) è un bimbo dolce capitato nel posto sbagliato. Vive con la famiglia in una di quelle baracche che solo in America sanno essere tanto squallide e tristi. Vessato da un padre sadico che alleva cani da combattimento, non trova conforto neppure nell’amore della madre, troppo vigliacca per opporsi alle botte continue dell’uomo e ai soprusi del figlio maggiore, ancora più folle e con deliri mistici. La donna un giorno scappa di casa, lasciando il figlio nella gabbia dei cani dove il padre lo ha rinchiuso. Gli animali diventano così gli unici amici di Doug, e lo rimarranno per sempre, anche quando finalmente la polizia lo viene a salvare. Il bambino resta paralizzato su una sedia a rotelle e incomincia la vita fuori dalla gabbia, diventa adulto, assume le fattezze del bravissimo Caleb Landry Jones.
Se tutto si riducesse all’esaltazione del migliore amico dell’uomo, all’homo homini lupus, al confronto, che pure ricorre, tra la lealtà degli animali e l’umano imprevedibile, sempre pronto a tradire, il film non sarebbe toccante com’è.
Invece vince soprattutto perché anche nell’orrore delle vicende narrate, Dogman è un inno alla gentilezza di cui Besson intercetta un bisogno… feroce. Il protagonista per tutto il tempo mantiene una cortesia da lord inglese, anche nelle scene più crude, emana una delicatezza fuori dal tempo. Lo vorresti come migliore amico, nonostante le tante maschere ambigue e il luogo strambo dove finisce per vivere.
La struttura del film è di cristallina semplicità. Persino l’assonanza tra Doug e dog (cane) è lampante. I cliché si sprecano: le drag queen dal cuore buono; le ricche signore rifatte – un’irriconoscibile Marisa Barenson, tempus fugit irreparabile; rubare ai ricchi per dare ai poveri; la recitazione come second life; una psicologa (Jojo T. Gibbs) solidale nella tristezza di un mondo difficile. Vita intensa, felicità a momenti, anzi, per gli ultimi della Terra, felicità mai. Ma perché non si può essere severi con Dogman, perché si deve, anzi, essere gentili e grati con questo film, che cosa salva il cliché? L’ironia. Besson la sa usare: la muta di cani che esegue ogni ordine di Doug, compreso passargli lo zucchero semolato mentre cucina la torta ai mirtilli, è buffa, fa ridere, è fumetto, è la grazia francese di Besson, pura poesia visiva, a quel punto ci sei dentro con tutte e due le scarpe. E chi non piange mentre Doug canta La Foule di Edith Piaf è senza cuore.