Sullo sfondo di un universo-palcoscenico le cui enigmatiche manifestazioni deliziano e tormentano da sempre gli astrofisici, Westerman sceglie di intrecciare il sacro e il profano, il cosmico e il terrestre, il fulgore degli astri e lo scempio dell’Olocausto (punto di contatto: l’osservatorio olandese di Westerborck, che oggi sorge dove un tempo un treno nazista deportava gli ebrei, ingoiati da quegli osceni buchi neri terrestri che erano i crematori), le scoperte sublimi e i velleitari progetti di conquistare altri pianeti dove proiettare la nostra micidiale, e in fondo patetica, specie.
Il tutto raccontato con girovagare da giornalista (l’autore non è uno scienziato), colpito più da aneddoti e curiosità intorno all’irrequieta scienza dello spazio che dalle leggi fisiche che, dall’esplosione del Big Bang (fu l’inizio di tutto, o il segno di una fine precedente, uno schianto che rimbalzò in una nuova creazione?) governano l’universo.
In capitoli dai nomi che si rincorrono e ripetono – Terra 1, Luna 1, Marte 1, Luna 2, Buchi neri 2 e così via – assistiamo alla pragmatica abiura di Galileo, che rinunciò, almeno a parole e per non morire malamente come Giordano Bruno, a far ruotare la Terra intorno al Sole; ai canali di Marte intravisti nel 1877 dall’astronomo Schiaparelli, che illusero sulla (im)possibilità di marziani forse estinti, forse semplicemente nascosti e un po’ spioni; alla visione, grazie a Jan Oort (una nube di comete porta oggi il suo nome) della nostra Via Lattea: una gigantesca girandola di stelle che ruota, e la nostra piccola e azzurrognola Terra ai margini di questa meraviglia.
L’ennesimo spintone a un dio «creato a nostra immagine e somiglianza» che, in uno spazio-tempo così spaventosamente vasto da essere immisurabile, appare sempre meno credibile a interessarsi dei miserevoli fatti nostri, graziare o punire un primate più o meno evoluto che, dovesse davvero traslocare su un altro mondo cosmico, ricomincerebbe pure lassù a incasinare tutto.
Perché non dovremmo cominciare a litigare per territori extraterrestri come abbiamo sempre fatto, si chiede Westerman, senza moraleggiare ma con inaccattabile realismo. «Dopo le serre e gli avamposti sulla Luna o su Marte, dovranno prima o poi sorgere paletti di confine. Recinti. Torri di guardia. Per ora gli altri corpi celesti sono liberi da violenza, saccheggi, repressione, inquinamento, schiavitù, lavori forzati. Non ci sono lager sulla Luna. Quante sono le probabilità che, armati dalle migliori intenzioni, non creiamo in cielo un nuovo inferno? Nel più probabile scenario del futuro, su Marte ci troveremo davanti noi stessi».
Commedia cosmica la nostra, primo atto e forse secondo atto altrove. Ma chissà se sarà mai a lieto fine.
- Alice Caroli è una giornalista torinese