UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Paolini, il Vajont e un teatro che dice: ribelliamoci

È il 1940 e la Sade, Società Adriatica di Elettricità con sede a Venezia, chiede al ministero dei Lavori pubblici il permesso di costruire, al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, una diga alta 200 metri sul torrente Vajont, nel Comune di Erto e Casso, e realizzare un serbatoio di 58 milioni di metri cubi di acqua collegato con una centrale di produzione elettrica. Il bacino del Vajont avrebbe dovuto diventare la banca dell’acqua di un sistema di sette dighe, denominato “il grande Vajont”. I lavori iniziano 17 anni dopo. L’altezza della diga viene portata a 266 metri e l’invaso a 150 milioni di metri cubi, nonostante continuassero a crescere consapevolezza e allarme per il pericolo di quell’opera gigantesca, grazie anche alle denunce della giornalista Tina Merlin (suo è il libro Sulla pelle viva, pubblicato per la prima volta nel 1983 e ripubblicato negli anni seguenti, nel 1997 con prefazione di Paolini; edizione più recente del 2001 edita da Cierre).

Il 9 ottobre 1963 alle 22.39 una frana di 260 milioni di metri cubi di roccia si stacca dal monte Toc e precipita nell’invaso sottostante. Provoca un’onda gigantesca di 50 milioni di metri cubi di acqua che fuoriesce dal bacino. Lo spostamento d’aria, simile a quello causato dalla bomba atomica di Hiroshima, e la violenza dell’acqua distruggono tutto ciò che incontrano. In un’apocalisse di 6 minuti metà di quei 50 milioni di metri cubi di acqua spazzano via Longarone e altri Comuni dell’area. I morti accertati sono 1917.

***

Il 9 ottobre 1997, 34° anniversario del disastro, stavo facendo un giro tra i canali tv quando mi sono fermata su Rai2. Ad ascoltare un attore allora per me sconosciuto: «Benvenuti al teatro della diga Vajont, non so perché vi siete sintonizzati stasera per ascoltare questa storia, su alcuni giornali è indicata come un documentario, in altri come un film drammatico. Invece siete in un teatro. Per una sera facciamo una diretta sulla memoria» stava dicendo, per poi iniziare a raccontare una delle peggiori tragedie del secolo scorso.

Quell’attore era Marco Paolini che qualche anno prima – era il 1993 – aveva cominciato a portare in giro Il racconto del Vajont, orazione civile creata con il regista Gabriele Vacis. Paolini – la voce di un uomo solo con la diga del Vajont alle spalle – ripercorreva quei fatti parlando di responsabilità e non di natura matrigna.

Ricordo che ero rimasta ad ascoltare, sullo sfondo quella diga di cui sì, avevo sentito parlare anni prima quando avevo incontrato mamma e figlia che si erano salvate dal disastro dove avevano perso tutto e tutta la famiglia. Ricordo i loro racconti – stentati, faticosi – di un qualcosa che nonostante le parole non riuscivo neppure a immaginare.

Io da allora Paolini l’ho seguito sempre, nei suoi spettacoli di impegno di civile (I-TIGI Racconto per Ustica, Parlamento chimico, Il Sergente, Bhopal 2 dic. ’84, Miserabili). E anche in tutti gli altri: il bellissimo Nel Tempo Degli Dei, Il calzolaio di Ulisse, per esempio.

Per questo sono andata a vedere l’unica rappresentazione, riproposizione dopo anni, de Il racconto del Vajont, un lunedì sera al teatro Strehler di Milano, sala sold out, le luci accese e Paolini giù dal palco, tra gli spettatori. Lo spettacolo arrivava una settimana dopo quel Vajonts 23, riscritto da Marco Paolini con la collaborazione di Marco Martinelli, andato in scena nel 60° anniversario della tragedia in contemporanea in 180 teatri in Italia e nel mondo, 223 “gruppi affettivi” (famiglie, coppie, gruppi di amici), 700 letture di comunità (colleghi, gruppi di lettura, parrocchie), 94 scuole, 54 gruppi di teatro amatoriale, enti, Comuni, aziende.

Marco Paolini La storia del Vajont

Il racconto del Vajont – cronaca di sei anni di cantieri, rischi, segnali di pericolo sottovalutati o ignorati e insieme riflessione e oggi anche presagio di tragedie annunciate dal cambiamento climatico  – ha portato sul palco, così come negli anni Novanta, fango, silenzio, solitudine, orrore, inettitudine e ignoranza, che ognuno di noi ha (ri)vissuto seguendo un racconto che ci ha ricordato come si costruisce una catastrofe. Che è accaduta nel 1963. Ma può accadere ancora.

Alle 22.39 i cellulari di noi che eravamo in sala si sono messi tutti a suonare. Li avevamo puntati all’inizio della serata, su richiesta di Paolini. Le 22.39, come l’ora della tragedia di sessant’anni fa. «Siamo circondati da segnali di pericolo che dobbiamo ascoltare» ha detto Paolini ricordando che non è più il tempo del teatro con lo scopo unico di divertire. «Il teatro deve farci ribellare». E, insieme, far crescere una coscienza civile di cui si stanno perdendo (o forse si sono già perse) le tracce.

«Nel 1963 avevo 7 anni» ha spiegato «e di Longarone imparai presto quel che c’era da sapere. Qualche anno dopo lessi Morire sul Vajont: ricordo bene la rabbia che mi prese a scoprire una storia così diversa da come me la ricordavo. Quando più tardi ho letto il libro di Tina Merlin Sulla pelle viva mi sono vergognato: di non conoscere, non sapere o di aver dimenticato. Raccontando la storia del Vajont ho voluto restituire giustizia a chi non l’aveva avuta e anche mettermi alla prova, perché anch’io la avevo memorizzata come disastro naturale. Volevo raccontare l’ingiustizia. Dire i nomi dei colpevoli».

E Claudio Longhi, direttore Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa: «Davanti al delicatissimo equilibrio tra la natura e la nostra specie, con negli occhi la fragilità di un territorio antropizzato e spesso ferocemente sfruttato, il teatro, che muta e si trasforma, può indicare la strada per promuovere modelli di crescita sostenibili. Per noi, che viviamo nello spazio ristretto del “qui e ora” e per chi verrà dopo di noi».

***

«Non si può far sentire il rumore della frana e dell’onda. Né restituire tutto il dolore, ma il teatro aiuta a immaginare e immaginare può aiutarci a prevenire». Alla fine delle due ore, quando l’onda spazza via quasi 2 mila vite, in sala c’è silenzio. È il silenzio della canzone del Vajont. Ed è il silenzio di quello che è venuto dopo: ponti caduti, alluvioni e bombe d’acqua, disastri provocati da uomini con un solo dio: il denaro a tutti i costi.

***

Noi non siamo scienziati, né ingegneri, né giudici. Non raccontiamo per giudicare ma perché sappiamo che il racconto muove, attiva un algoritmo potente della nostra specie: i sentimenti, le emozioni. Non c’è Ragione senza Sentimento. Le emozioni sono leve che lasciano segni durevoli, avvicinano chi è lontano, le emozioni sono la colla di un corpo sociale. Il Vajont appartiene alla storia d’Italia anche grazie al teatro, dobbiamo usarlo e cercare di far entrare altri racconti nella nostra storia. Perché? Perché ci servono per affrontare quel che ci aspetta. Non per far le Cassandre, ma non è difficile immaginare le prossime emergenze, e dovremo limitare l’uso della parola emergenza. Allora non è difficile immaginare che serva una Prevenzione Civile e non solo una Protezione Civile. La storia del Vajont ci serve perché insegna cos’è la sottovalutazione di un rischio affrontato confidando sul calcolo dell’ipotesi meno pericolosa tra tante. Tra tante scartate perché inconcepibili, non perché impossibili. Non essere capaci di concepire nasce dal non saper vedere un disegno, dal non riuscire a immaginare. Un difetto d’immaginazione, insomma. A noi non viene chiesto di indicare soluzioni: ma di immaginare, raccontare e disegnare. C’è un accumulo di storie che se raccontate bene, in modo etico, possono aiutarci a immaginare l’ignoto per affrontarlo. (Marco Paolini)

  • Le foto sono di Gianluca Moretto
I social: