Siamo dalle parti di un’odissea minore, all’azzeramento joyciano delle pretese da gabinetto degli sceneggiatori, non c’è storia non c’è evoluzione, si torna sempre da dove si è partiti, se là nell’Ulisse sono costruzioni di parole destinate a restare come echi nella mente di chi pretende di leggere, damigelle di pensieri altri, qua puoi anche piangere in cinese, nella perfezione nordica dell’allestimento scenico sono i colori a evocare svenimenti, abbandoni del logos, sonni e risvegli, fuori e dentro allucinazioni che diventano altre, nel racconto che se esiste, oltre il minimale, diventa la costruzione di un percorso che non può che essere di ognuno, l’attimo prima d’essere dimenticato.
Non c’è spazio in questo cosmo nemmeno per gli attori, dimenticabili, statue di cera già sciolte sulla materia filmica, né per immedesimazioni pretestuose, tanto meno per adulazioni di star sui coturni, il protagonista è colui che guarda, meglio se dormendo. Angela Bundalovic è il character principale, improponibile alla fabbrica del consumo, proprio perché dev’essere ed è deuteragonista (o sta solo lanciando la volata alla figlia di Refn nell’ennesima provocazione che si fa provocatoria entrata in scena come autocritica al system che si perpetua escludendo nel mentre predica inclusione?). Regna sui mobili lucenti, sui rari fiori, sui profumi dell’ambra, sui ricchi soffitti, sugli specchi profondi, sullo splendore orientale la lingua segreta dell’anima, il grugnito orwelliano dei maiali che invita al viaggio: ultimo sberleffo d’autore al russare della mala vita.
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