A fine estate mi era venuta l’ispirazione di rivedere Bolgheri e percorrere il Viale dei cipressi. Alcuni amici che vi erano stati in piena stagione mi avevano raccontato di aver trovato un caos di turisti, di auto e anche un grande autobus rosso a due piani, di quelli usati nelle città d’arte, nelle capitali, per portare in giro i visitatori pigri.
Bolgheri è una frazione di Castagneto Carducci, nella provincia di Livorno, in Toscana, e dista una ventina di chilometri da dove risiedo. Ero in auto e lasciata la vecchia via Aurelia a San Guido ero entrato nel viale, un rettilineo di circa 5 chilometri affiancato da 2.540 cipressi, uno più o uno meno. Un tempo lo percorrevo a piedi e contavo gli alberi, ma i risultati erano sempre diversi. Parlo di molti anni fa quando le auto che ci passavano, pochissime, erano di solito le Dyane o le Renault 4 degli abitanti del luogo.
Questa volta invece venivo sorpassato da Suv e da tanti altri mezzi di grossa cilindrata con targhe italiane e straniere. A un certo punto mi sono trovato davanti “il mostro”, il famigerato bus rosso a due piani carico di turisti che procedeva più lento di me, mi impediva di ammirare lo spettacolo degli alberi in fila e mi avvolgeva col fetore dei tubi di scarico. Compiva il tour molte volte al giorno tra la costa, Bolgheri, per poi salire in collina verso Castagneto Carducci. È un percorso che trasmette un grande fascino, tra vigneti, cipressi, pini marittimi e antiche costruzioni in pietra (restaurate).
Giunto a Bolgheri e riuscito a parcheggiare lungo la fine del viale, attraversata la porta del castello che immette nel borgo, non rimasi sorpreso del caos, peggiore di quando ero stato di sfuggita l’anno prima: turisti che affollavano le poche stradine e la piazzetta; entravano e uscivano dai negozi di souvenir che vendevano di tutto, dai vini agli spaghetti, dalle T-shirt ai Pinocchi di legno. Che c’entrava poi il burattino con Bolgheri e Carducci?
Era quasi l’ora di cena e la “mangiatoia” era pronta ad accogliere la massa: oltre alle trattorie sparse nei vicoli, la terrazza che guarda le colline e il prato circostante erano coperti totalmente da tavoli e ombrelloni. Le antiche case dei contadini, degli artigiani e il palazzotto dei conti Della Gherardesca, per secoli unici signori del feudo, sembravano affogare in quella marea di gente e di cose. Sono subito fuggito verso il paesello in cui abito, altrettanto antico come Bolgheri ma meno segnato dalla Storia, pochissimo frequentato dai turisti se non da quelli che amano la tranquillità.
La Bolgheri che avevo conosciuto in passato era molto diversa. La prima volta che vi andai fu durante una gita scolastica organizzata dalla scuola media che frequentavo a Livorno. Da poco ero stato “costretto” a imparare a memoria la lunghissima poesia del Carducci Davanti San Guido: I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da san Guido in duplice filar… Perché schietti? Lo chiesi all’insegnante d’Italiano che mi rispose “perché autentici”. Non capii.
La prima cosa che notai, scendendo dall’autobus, fu la catena che chiudeva il portale d’ingresso al borgo. Mi venne in mente un’altra catena, quella della masseria fortificata di Monte Altino, in Puglia, dove andai pochi anni prima al seguito dei miei genitori durante una marcia di sostegno ai braccianti.
Entrato nel borgo toscano feci un confronto con l’altro: le stradine di Bolgheri erano ben ordinate e suggerivano l’idea di una sicurezza stanziale; la pavimentazione e i cordoli in pietra grigia erano sgombri di terra ed escrementi di animali; i tombini mostravano l’esistenza di fognature; dominava l’odore del fieno, del pane appena sfornato, del legno lavorato in una piccola falegnameria. Nel borgo vivevano artigiani, i contadini della tenuta, in Toscana chiamati operai, in antiche abitazioni ben conservate.
I conti Della Gherardesca risiedevano stabilmente nel palazzo e dirigevano il lavoro della grande azienda agricola, cosa che non accadeva a Monte Altino i cui padroni abitavano in città e raramente si recavano alla masseria. Ricordo la miseria di quel borgo pugliese, la pavimentazione in terra battuta, la puzza di escrementi di asini e di cavalli, l’acqua sporca che scorreva lungo i rigagnoli, le abitazioni dei contadini, stamberghe di una sola stanza in cui vivevano intere famiglie. Erano trascorsi quattro anni tra quella visita e la gita scolastica a Bolgheri dove la catena serviva per vietare l’accesso alle auto dei turisti, a quei tempi pochissimi.
Tornai a Bolgheri nel 1980. Avevo preso in affitto per le vacanze e qualche weekend una parte di una cascina chiamata Campo al bastaio perché un tempo era l’abitazione dell’incaricato alla riparazione dei carri e dei finimenti dei cavalli. Dalla casa, circondata da un grande spiazzo e più in là da uliveti, vedevo il mare. Rispetto alla lontana gita scolastica il borgo era cambiato di poco: l’unica novità il bar con accanto il negozio di alimentari e la tabaccheria. Si poteva mangiare del formaggio e del buon prosciutto. Per un pasto completo si doveva prenotare il giorno prima. Quel luogo rappresentava una fuga temporanea dalla metropoli milanese.
Per me era anche una base di partenza per le “scorrerie” in tante altre località toscane, dalle vicine Volterra e San Giminiano – dove soltanto nel weekend arrivava un numero limitato di turisti – alle più lontane Montepulciano, Montalcino, Pienza. Fui affascinato da quest’ultima, fatta edificare nel 1459 dal Papa Pio II Piccolomini vicino al suo paese natio. La città costruita imitava in piccolo il rinascimento fiorentino, con palazzi degni di ospitare il Papa e il suo seguito. A parte qualche auto e le infrastrutture dell’età contemporanea, sembrava di essere stati catapultati indietro di secoli.
A pochi chilometri da Siena scoprii Monteriggioni, citata da Dante nella Commedia, con le sue torri medievali che dominavano sulla campagna, le mura e il “campo” che un tempo serviva per acquartierare le truppe. C’era una sola trattoria ed è inutile sottolineare che si mangiava molto bene. Ma durante altre visite vidi la trattoria trasformata in ristorante e a quello in poco tempo se n’erano aggiunti tanti altri. A valle erano nati grandi parcheggi. Lo stesso per Pienza e le altre località. Poco tempo fa un sindaco di San Giminiano si vantava per l’afflusso di turisti che aveva raggiunto i tre milioni in un anno. Sì, tre milioni!
Lo stesso vale per Firenze, città in cui mi trasferii nel ’95. Confrontandola con Milano, la città mi parve tranquilla, quasi sonnolenta; i turisti si confondevano tra gli abitanti; agli Uffizi le code erano limitate e al Museo dell’Accademia, che ospitava il vero David, le visite erano rare; nelle chiese come il Duomo il Battistero e Santa Croce non si doveva pagare il biglietto per entrare. Insomma la ressa non esisteva.
Poi, a partire dal Duemila, l’effetto del turismo è cambiato prima gradualmente per scoppiare ai nostri giorni. Allo stesso tempo la città mutava l’aspetto tradizionale del territorio e della società. Tutto era cominciato con la chiusura di molte tipiche e antiche attività del centro: la storica e bellissima libreria Seeber, fondata a metà dell’Ottocento da uno svizzero, venne venduta per 25 miliardi di lire a una nota casa di mode. Occupava 400 metri di superficie al pianterreno di un palazzo cinquecentesco di via Tornabuoni. Era arredata come un salotto con poltrone, boiserie e grandi scaffali in legno ricchi di libri provenienti da tutto il mondo.
Era la libreria di D’Annunzio e Montale e ancor prima vi passarono Puškin, Dostevskij che tra il 1868 e il ’69 aveva preso in affitto una casa in piazza Pitti; Mark Twain che aveva soggiornato a Firenze per un anno intero. E poi Thomas Mann, D.H. Lawrence, e tanti altri protagonisti della cultura. Poche furono le proteste. Il sindaco di allora rimase indifferente. In quei locali restano le scaffalature e gli antichi affreschi della volta perché vincolati dalle Belle Arti.
Di fronte scomparve anche la farmacia Robert’s aperta a fine Ottocento dall’inventore del famoso borotalco. Tanti altri negozi storici furono chiusi per rinascere come contenitori di “grandi firme”. Davanti alle nuove vetrine sostano file di acquirenti, soprattutto americani, giapponesi e cinesi. Via Tornabuoni è diventata un supermarket del lusso.
Oggi la via Dei Neri, alle spalle di Palazzo Vecchio si è trasformata in una mangiatoia di panini. La calca davanti a un piccolo negozio di pane, salame e prosciutto era diventata tale da spingere il proprietario, i cui profitti si erano moltiplicati, a comprare altri due locali attigui. Oggi la strada è bloccata al traffico dalla ressa di stranieri che comprano sandwich alla “fiorentina” e li consumano seduti sul marciapiede e sui portoni. Quella via era famosa per i negozi di ferramenta, per gli artigiani, i pizzicagnoli. Quasi tutti hanno chiuso e molti abitanti si sono trasferiti altrove.
Gli stretti marciapiedi dei lungarni sono battuti dal mattino alla sera da un continuo via vai di turisti. Anni fa quando vivevo a Firenze e mi affacciavo sul terrazzo venivo fotografato come se fossi stato la comparsa di una Disneyland fiorentina. Infine la movida ha completato la metamorfosi della città con le birrerie, i bar dell’apericena e le mangiatoie. Ho lasciato Firenze per sceglier la campagna di un paese vicino al mare, ma non Bolgheri.
(credit foto: “Road to Bolgheri Tuscany” by Tassoman is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.)