Beati gli attori coevi di Martin Scorsese, e se Bob De Niro ormai non vale, perché i due sono sodali fin da ragazzini, tanto che non si sa più dove finisce uno e inizia l’altro, chiedere invece a Leo DiCaprio, dato letteralmente alla luce dal Maestro italoamericano. Mai come in Killers of the Flower Moon, Leo toglie il fiato, con un’interpretazione che resterà nella storia del Cinema, come questo film, epico, immenso.
Protagonista nei panni di Ernest, che torna dall’Europa dopo la prima guerra mondiale, DiCaprio è il new boy in town a Fairfax, in Oklahoma, la terra della tribù degli Osage, divenuta un paradiso ambitissimo da quando è stato trovato il petrolio. Solo i nativi, improvvisamente milionari, hanno diritto alle concessioni dei pozzi, e i bianchi sono avvoltoi che volano sulle loro teste in cerca della maniera per spogliarli di ogni ricchezza. Magari nelle vesti di tutori, giacché secondo la logica razzista del Governo americano, da soli gli Osage non sono in grado di amministrare i loro soldi.
Spicca il vecchio proprietario terriero William “King” Hale (Robert De Niro), lo zio di Ernest, che parla la lingua locale, sorride a tutti e ha un piano nel quale lo stolido nipote è la pedina perfetta. Se sposerà Mollie (Lily Gladstone), discendente della famiglia Osage più in vista della città, ne trarrà beneficio imperituro. Ernest obbedisce, Mollie oltretutto gli piace. Via libera quindi alla “contaminazione”, se può portare dollari, tanto più che per misteriose ragioni, ogni Osage non vive mai a lungo, e anche in età giovanile, vede comparire il gufo simbolo del regno dei morti.
Il film, adattamento del saggio di David Grann Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI, che racconta le morti degli Osage negli anni Venti, è uno e trino, forse infinito, e non c’è un solo secondo inutile, nelle 3 ore e 20 minuti di durata.
Batte il tamburo lentamente per Ernest e la sua tragedia da uomo ridicolo. Imbecille fino alla fine, dalla prima all’ultima parola, che sarà “insulina”, la sostanza che crede di inoculare alla moglie Mollie, regalandole un letto di dolore, anziché la salvezza.
Ernest non capisce, non capirà mai. Mollie lo descrive come un uomo “non molto intelligente”, ma s’invaghisce di lui, da lui ha tre figli. A modo suo, nonostante contribuisca a sterminarle la famiglia, Ernest la ama, solo che è plagiato dalla lucida ferocia di Hale, lo zio che le sa tutte, anche come si contamina una medicina, da chi far esplodere una bomba o commettere una rapina.
Ernest, sul volto l’eterna fatica di comprendere un mondo troppo complesso per lui, tra le braccia della moglie è mansueto, un’innocua mucca che guarda passare i treni; quando agisce per conto dello zio, invece, cerca di incutere timore imitandolo persino nella maniera di tenere alta la mascella e strette le labbra che nel primo caso emettono sentenze, nel suo, scemenze. Eppure, tocco geniale di Scorsese, quando Ernest parla con la moglie nella lingua locale (per volontà del regista questi dialoghi di coppia non sono sottotitolati) somiglia all’adulto che avrebbe potuto diventare. Le loro parole incomprensibili ci arrivano lo stesso, tramite i loro sguardi.
Batte il tamburo lentamente per Hale, che striscia come un serpente, con lucida ferocia, per le strade di Fairfax quasi fosse la Mulberry Street di Mean Streets, giacché ogni buono è buono a modo suo, ma i veri cattivi si somigliano tutti: sapienti, intriganti, seduttivi. Quando l’agente federale Tom White (Jesse Plemons) lo incontra per la prima volta, Hale è sdraiato sulla poltrona del barbiere, come un uomo di Cosa Nostra, perché la gang di tutori degli Osage è esattamente la Mafia, nel senso antropologico del termine, e chi può saperlo meglio di Scorsese?
Batte il tamburo lentamente per Mollie, una straordinaria Lily Gladstone, poche parole e silenzi densi. Ai suoi occhi intelligenti, Scorsese affida la spietata critica al suo Paese, che arraffa tutto di corsa, in fretta e furia, senza amore né per gli uomini né per la natura. Mollie ci guarda, non si sfugge un solo istante al suo sguardo, malinconico e immenso. Quando a poco a poco rischia di spegnersi per ragioni misteriose nel suo letto, è un’Ingrid Bergman che nessun Cary Grant viene a salvare. Viene invece l’Fbi, qualcosa di buono il rapace J.Edgar Hoover lo ha fatto, i suoi uomini scoprono gli altarini di morte anche grazie al coraggio di Mollie, che pur senza forze, con le ultime si arrampica su un treno per Washington, a chiedere aiuto.
La colonna sonora di Robbie Robertson, morto questa estate, è ipnotica, parte fondante del film. Robertson, altro amico di lunga data di Scorsese, aveva una madre nativa americana e sulle sonorità ancestrali ha lavorato a lungo. E a lungo si è interrogato Scorsese per fare la cosa giusta nei confronti dei veri protagonisti della Storia, gli Osage. Inizialmente il film aveva una sceneggiatura diversa, era il detective dell’ Fbi l’occhio narrante nonché il personaggio pensato per DiCaprio, l’ottica era quella dei bianchi.
Le cose poi sono andate diversamente, solo i geni sanno cambiare idea e interrogarsi a lungo su un progetto, correggerlo in corso d’opera. Martin, insegna agli attivisti come si difende una causa senza un’oncia di retorica! Lui stesso, nel finale, entra in scena nelle vesti di narratore di un programma radiofonico che racconta all’America come finì la triste vicenda. A ricordarci la priorità delle ragioni artistiche anche in una storia che prende spunto dal vero. In Martin, we trust.