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Allonsanfàn
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Viaggi. Berlino non è Berlino

Berlin is not Berlin. Recita, in inglese, il manifesto di un festival sul quale campeggia la figura di un animale mezzo orso, il simbolo della città, e mezzo cavallo. E Berlin è ripetuto ossessivamente su insegne dei negozi, locandine di spettacoli, caffetterie, sticker, feste di quartiere, sfere autoreferenziali, furgoni dei trasporti, Ape Piaggio per trip alternativi all’East Side Gallery, comedy show, graffiti, annunci di manifestazioni, tattoo, pannelli commemorativi, dichiarazioni d’amore in prima persona con cuoricini d’ordinanza alla Glaser mentre a NY si è già passati al più inclusivo WE, brand sulle vetrine dei mall che tautologici vendono Berlino (e fa sorridere vederlo accostato sulla facciata Jugendstil del palazzo secessionista Hackesche Höfe al logo di gioielli Perlin) quasi a voler auto convincersi di un’identità smezzata ancora lontana dall’essere riacquisita. Se quelle cicatrici sull’asfalto ricordano l’epoca della artificiale divisione, le due parti riunificate sembrano tutt’altro che le famose platoniche metà finalmente riabbracciatesi nella soddisfazione di amorosi sensi, e a guardarle meglio sono più zip che da un momento all’altro più che sintesi disveleranno contraddizioni, quando non aporie, sbalzi temporali, miscellanee di ideologie e estrazioni diverse, dove la cesura tra ovest e est appare al dunque una consolatoria iper semplificazione e i resti del Mauer il modo più sbrigativo per liquidare una complessità che ora e qui, a Berlino, non fa sconti al pensiero.

Berlino non è Berlino. Ed è palese anche allo sguardo superficiale di chi non ci vive ma ne calpesta la superficie seguendo le traiettorie comuni del turismo o svicolando dai tour guidati in improvvisazioni jazz da flâneur, con le scarpe di Benjamin trovate per strada e qualche nozione vaga di promenodologia, tra giraffe uraniane e gru appese al cielo, e si trova immerso in quartieri residenziali weirdcore, abnormi, ripensati in chiave edilizia popolare e ripuliti ma dove non c’è un negozio per chilometri né anima viva, in piazze rivisitate come pizze gourmet con edifici che mostrano il mascara di un piano evidentemente destinato al make up, tutto acciaio e spigoli di cristallo, improvvisamente rivelatosi antistorico da quando a Berlino fa un caldo porco e dentro al chiuso senza l’aria condizionata il trucco si scioglie e si è carne da fogna (sotto la città c’è una palude e nemmeno i romani che hanno costruito ovunque, pure sui Balcani, ci hanno mai messo mano e prima di edificare va aspirata l’acqua, copiosa, e indirizzata altrove tramite labirintici tubi ad altezza metri 5 riverniciati in rosa con un discutibile effetto che qualcuno ha approvato evidentemente come estetico), in brauerei che chiudono la cucina alle nove, in altre dove i camerieri ti ruzzano via se non stai seduto al tuo posto, nella eterna linguaccia degli Stones – oggi per omologazione tutti direbbero iconica e siccome iconico non si risparmia a niente nulla lo è più per davvero – sulla t-shirt sbrindellata il giusto per apparire in vetrina realmente d’epoca e magari solo fintamente stracciona per restare fedeli a quell’aura che un tempo connotava la Kreuzberg post reunion (ma se vai da Humana sulla Karl Marx Straße, a Neukölln, una giacca usata la paghi non meno di 40 euro, dal che è facile dedurre senza essere economisti quanto si venga sverniciati se la stessa, nella medesima catena, a Sibiu, in Romania, dove l’est è più est che qua, viene via per 3), in palazzi barocchi ricostruiti sul modello originale con una fiancata razionalista che si atteggia a contemporanea quasi a voler suggerire che l’inganno c’è e si vede ma è tutto un gioco di prestigio perché l’Humboldt Forum nasce sulle ceneri del Palazzo della Repubblica voluto dalla Germania dell’Est sulle macerie del Palazzo degli Hoenzollern distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ed è falsa anche a Nikolaiviertel, il quartiere medievale è interamente ricostruito, come rappezzata è la quadriga sulla Porta di Brandeburgo, nuove le copie degli originali palazzi di Pariser Platz e ricostruiti sono pure la Porta del mercato di Mileto e la strada processionale della Porta di Ištar (con le margherite rese celebri da Guru) al Pergamonmuseum che sono di Berlino pur non essendo di Berlino mentre in attesa che finiscano i lavori l’Altare di Zeus è visibile solo in una ricostruzione 3D più fedele all’originale che i resti dei fregi sfregiati dal tempo, mentre la borsetta degli elegantissimi Assiri è identica al nuovo modello di smartphone foldable presentato all’Ifa che con una catenella si ripiega diventando una pochette.

Posticcio è il Checkpoint Charlie (e autentico in quanto replica consapevole il McDonald’s proprio dietro se lo fotografi da ovest e quindi significativamente a est) come i colbacchi e la bigiotteria guerra fredda made in Polonia sulle bancarelle e le Trabant in fila indiana, messi lì per farti sentire a Berlino, la Berlino della storia, ma anche la Berlino dei film, della techno, delle notti che durano tre giorni, degli artisti, dell’Orchestra filarmonica, della trasgressione, delle droghe, del clubbing… dei rave legali e perciò meno trasgressivi di una Terrazza Paradiso… la Berlino paese dei balocchi dove andavano tutti con quell’aria di chi aveva capito tutto mentre noi si restava a marcire a Milano, dando il sesso e quelle scarse aspirazioni al gabinetto, tutti quelli che pensandosi artisti finivano perlopiù a vivere solo la vita degli artisti, un kindergarter permissivo come una mamma buona con affitti al ribasso, metratura XXL, vantaggi fiscali, facile accesso agli stordimenti, no servizio militare, sesso libero, birra in mano, opportunità coniugate al divertimento e un sacco di gente interessante in un ambiente funzionale, dinamico e sicuro per fare community ante litteram sotto l’occhio vigile delle signorine Rottermaier del Ministero delle finanze coi lampeggianti blu delle auto della Polizei a circoscrivere gli spazi pure della trasgressione perché nessuno al dunque si facesse male (“Perché vivo a Berlino? Perché è una città sicura” il villico italico expat che non vorresti incontrare di notte mentre me la faccio tutta a piedi dal Newton bar con i Big Nudes alle pareti sopra le poltroncine charleston in pelle – tutti a farsi di shottini di birra come da trend, ma perché? – dopo una cena in una brasserie condotta da uno chef stellato di Kreuzberg ovvio, a mangiare gamberetti marocchini, carciofini di Gerusalemme e dessert francesi, ricoperto di tattoo, lui, e anelli al naso sia pure retrattili, sia mai che debba fare un colloquio di lavoro che non sia il gestire il gruppo melting pop delle cheerleader dei Berlin Thunder, in costume bianconero rifilato in verde fluo e fiocco tra i capelli, la domenica al Friedrich-Ludwig-Jahn-Sportpark), magari facendo finta di non sapere ci fosse dietro un progetto di ripopolazione ancora prima che di riqualificazione, che qualcuno prima o poi, aumentato il valore degli immobili, avrebbe presentato il conto ai vari Bonetti rispedendoli ai margini o di nuovo a casa e in mutande. Poveri e sexy come da slogan delle autorità, quando non c’è nulla di sexy nella povertà, solo nella disperazione, e quella l’avevano già espulsa, troppo pericolosa, da un pezzo.

Il risultato, oggi, sono pezzi di Berlino non solo del Mauer, o più probabile dei muri degli appartamenti in ristrutturazione da B&B, che saltano fuori posto, pezzi di est a ovest e viceversa, rigurgiti di storia, suonatori di canzoni spagnole al Mitte, l’ultimo dei punk che pedala, sardonico e compiaciuto, su un bike taxi portando a spasso, a rispettabile speed di crociera, due turisti, sud del mondo e capitalismo avanzato, Metropolis e foresta, fräulein acchittate da pin up, teste fratturate di manichini in vetrina, modelle con acconciature alla Arcimboldo, Bud Spencer, bungee jumping dalle torri, vetrine fetish, sfattoni sulla S-Bahn, letti a pedali per turisti, orecchie elfiche, calze a rete, chador, angeli annoiati, putti dorati nei giardini, volpi randage, fantasmi biancolatte, statue ai margini di Tiergarten come occhiuti guardiani notturni, una mongolfiera leggerissima sopra la topografia dell’orrore, bambini con bombolette spray, ristoranti vietnamiti e kebabbari turchi, moldavi che fanno il gioco delle tre carte e svastiche che spariscono dalle pareti del Reichsluftfahrtministerium semplicemente ribaltando i pannelli di marmo, profili di eroi sfasati all’appuntamento con la diacronia della Storia, coppiette post-punk alla Peynet con chiodo di pelle vegana e frangia verde, valchirie k-punk con tracolle nepalesi, post hipster con bici pieghevole, fori di proiettili in graziose composizioni con pacifici artigiani baffuti, baretti parigini con fiori sui tavolini rotondi e sotto i tavolini mocassini da donna con calzini, tronchetti con calzeretta di seta al polpaccio, Adidas Continental 80 bianche o Handball Spezial per lui, Emit Flesti a prendere il sole su una panchina con una camicia texana e le scarpe di vernice, la tazza in bilico sullo schienale, fuori dal giro d’azione della cameriera coi capelli viola, aperitivi al Charlie’s Beach o nei bagni attrezzati sulla Sprea, tifosi di football americano a Pranzlauer Berg appunto, dove le famiglie benestanti hanno preso il posto degli artisti e prolificano bambini che hanno lo sguardo radiante dei nati vincenti, mentre poco distante al mercatino di Mauerpark trovi la stessa chincaglieria di ogni mercatino finto alternativo, e le stesse finto inclusive progressiste coi fuseau senape sotto gli short e le Converse rosa, le canottierine leopardate sopra la tuta sformata, un anime ragazzina con le corna inchiostrata sulla schiena sotto le treccine rosso fuoco della cosplay con gonnellino manga, disposte a spendere 25 euro per una Vulva Shaped Soap e a sputare su Hegel ma pronte a fare dietro-front ubbidienti davanti al bouncer (“Me too?”) che gli nega l’accesso, Doc Martens ovunque anche per i maschi al solito più scazzati… jeans, ball cap, giubbotti college, camicie a quadri, t-shirt slabbrate… che poi Berlino a settembre è come Milano il giorno in cui l’estate diventa inverno senza passare dall’autunno e ognuno si vive il caldo e il freddo relativo a modo suo, meno ignoranti comunque delle due tipe in mutande Heroinkids, corpetto traforato e lingua di fuori alla Stones, tutto torna, ma con piercing, che promuovono su una locandina attaccata provvisoria a un tronco, mentre un trio suona i Depeche Mode in una versione aspartame da Pinguini Tattici Nucleari, l’Exzess Betreuung  per il 5 e in replica il 10, un party – spiega il sito Ignorantfashion – che celebra una visione lesbo nichilista di bellezza, grazia, decadenza e fragilità (anche meno!) al Georgia Bar “un luogo noto per le notti selvagge e le feste eccessive” con musica Kinky Techno, sempre dalla sezione prevendita, e intanto ti puoi portare avanti acquistando una canotta Wasted Youth a 29,99: saranno magari le figlie dei Doll by Doll, un gruppo londinese emo psycho ignorato all’epoca dalla critica, il cui vinile del 1980, “remember”, fa capolino, accanto a una cover con la faccia di una scimmia invecchiata prima molto prima che inventassero FaceApp (o si diventasse milionari con l’NFT del Bored Ape Yacht Club) e la dicitura HAPPYEND, in una bancarella di dischi a 8-10 euro.

Beffardo poco più in là spunta, nello scomparto Lyrik di un bouquinisten, a segnalare Rilke, Mallarmé, Baudelaire e la Szymborska, il volto baffuto di Antonin Panenka: l’inventore del cucchiaio che segnò il calcio di rigore decisivo per la vittoria della Cecoslovacchia sull’allora Germania Ovest, a Belgrado nel 1976, finale dei Campionati europei, quando il corridoio della morte era ben presidiato a Berlino, e mentre tutti a est sapevano come tirava i rigori Panenka a ovest ignorandolo rimasero spiazzati da quell’azzardo geniale insieme a Sepp Maier, l’arcigno portiere tedesco che in partita sfoggiava il suo sguardo più truce e invece era un allegrone che smessi i guantoni pare abbia fatto per un periodo il clown in un circo, magari nello stesso spiazzo a Potsdamer dove volteggiava al trapezio Solveig, e ora magari fa il buttafuori senz’anima in qualche club, spolverino in pelle e collare borchiato: tu sì tu no col solo gesto di una mano, pollice teso e quattro dita a piegare l’attesa di due ore, verticali o orizzontali. Dentro o smammare.

Berlino non è Berlino, al dunque non fa tornare i conti. Perché piuttosto Berlino è non-Berlino. Scompare se sei venuto per cercarla, ed è come sempre più vera laddove il falso alla maniera di Burckhardt esibisce se stesso e poco importa se è un simulacro che racconta la storia che le fa piacere raccontare, una storia dove i bambini giocano a rincorrersi tra le stele al Memoriale per gli ebrei per nulla disorientati dall’ordine ortogonale del progetto che mira, nelle intenzioni, “a piegare la ragione umana all’angoscia della solitudine”, il checkpoint è uno sfondo di cartone instagrammabile, il bunker di Hitler è nascosto sotto un anonimo parcheggio (ma tutti sanno dove) e puoi prenotare un tour cittadino del Terzo Reich, la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche è rimasta in forma di rudere come un capriccio barocco, a Bethlehemkirchplatz la chiesa distrutta rinasce invece in forma concettuale come puro scheletro di acciaio e luci in un’opera che si chiama “Memoria Urbana” celebrandone la mancanza, e proprio lì accanto l’House Ball di Oldenburg-van Bruggen ci racconta che tutto, dalla porta di Babilonia al castello degli Hoenzollern alla Forum Tower di Renzo Piano può essere smontato e messo in un fagotto, come gli abitanti ideali che vorrebbe il filantrocapitalismo, nomadi digitali con potere d’acquisto mica straccioni in roulotte vicino alle ferrovie, al limite per convenienza logistica nella Silicon Valley in camper super accessoriati, senza radici e quindi pronti a trasferirsi come merci seguendo, convinti siano le proprie, le rotte del mercato globale, al dunque interessati solo a consumare le città gambe aperte in cerca sempre di nuovi clienti.

Pur essendo codificata come leggenda metropolitana, la chiosa “Ich bin ein Berliner” del discorso che Kennedy pronunciò nel 1963, due anni dopo la costruzione del Muro, rivela di più su Berlino e i suoi abitanti perché, anche se grammaticalmente giusta, con quella frase il presidente americano identificò se stesso come “un krapfen” nel momento in cui, volendo dimostrare il sostegno degli Stati Uniti ai cittadini dell’Ovest, legittimava di fatto l’appartenenza di Berlino Est al Blocco sovietico, avvalorando l’idea per la quale i berlinesi sono dei “bomboloni”, cittadini cioè non in grado di autodeterminarsi e in balia degli eventi. Quel che appariva paradiso agli occhi dei berlinesi dell’Est era incentivato, dato che nessuno voleva vivere in un exclave in territorio sovietico, e già pronto a essere zoo per sineddoche per scappati di casa prima… così come Montecarlo è il paradiso degli evasori, Campione dei giocatori d’azzardo, Lisbona e Durazzo dei pensionati, Milano dei giovani dietro il piffero delle aziende… e creativi poi (dalle fotografe fino agli intrecciatori di perline colorate), mentre gli artisti dell’Ovest come Gisela Kraft facevano domanda e si rifugiavano all’Est davanti agli stupefatti funzionari di frontiera per le stesse ragioni per cui dall’Europa prima e dagli Stati Uniti poi si voleva venire a Berlino, Ovest fino alla caduta del Muro e tout court ancora adesso: “Potevo vivere da scrittrice e fare persino piccoli viaggi e andare a teatro. Ero coperta per tutto ciò di cui avevo bisogno: potevo dedicarmi produttivamente alla mia attività senza dovere pensare ogni giorno: potrò pagare l’affitto il mese prossimo?” mentre a Ovest le era rimproverato di essere una persona pigra e asociale e di aver tradotto l’amato Hikmet.

Se cerchi quel tipo di libertà sei come la Trabant che sfondato il muro della East Side Gallery ora come una talpa continua imperterrita a scavarci sotto un tunnel. Che pure il Mauer aveva il suo doppio, e al dunque i muri sono ovunque, più spesso laddove nemmeno li vedi, e ci puoi solo cantare sopra una volta caduti come Roger Waters nel 1990, acqua sopra una diga, se non hai provato a rimbalzarci contro o a scavalcarli inutilmente, o a prendere coscienza come nel messaggio originario dei Pink Floyd d’essere tu soltanto un altro mattone, anche quando come il soldato Hans Conrad Schumann hai creduto di avercela fatta. Spettri vittime dell’idea di aver perduto il futuro perché impediti nel movimento.

Si sta dunque a Berlino col passo a metà sulle suture di ferite che vorrebbero rappezzare la Storia, mentre le placche sull’asfalto ricordano tronfie in ogni momento quale sia il verso giusto non solo della scritta che ricorda che lì passava il Muro, e invece sono al contrario le fratture aperte, come installazioni di JR, posti privilegiati da cui guardare il più grande show dopo il Big Bang da un posto unico nel mondo, rasoterra –  da umani coscritti a uno spettacolo forzato – non come angeli lacrimosi dall’alto della Colonna della Vittoria, piuttosto con lo sguardo luminol e invidiabilmente entusiasta della ragazza che indica l’uscita giusta al forestiero da una panchina alla fermata della Bernauer Straße, come si fosse a studiare le ere geologiche sul bordo del Grand Canyon ma qui davvero si ha una prospettiva luminal non soltanto sul passato come da TimeRide in VR col visore ma sul futuro mentre il presente racconta come la caduta del Muro non abbia aperto la porta a nessun Paradiso: gli opposti si sono semplicemente mischiati – realtà e finzione, destra e sinistra, capitale e sociale, scienza e credenza, pubblico e privato, virtuale e reale, orso e cavallo… – e il tempo della produzione va a braccetto col tempo del godimento, altrettanto autoritario.

La linea bianca tratteggiata è storta, i semafori fanno solo verde e rosso e a volte attraversi strasse che sono per metà verde poi ti fermi nel guado perché l’altra metà è rossa (ma visto che gli automobilisti erano troppo rispettosi dei pedoni per sveltire il traffico le strisce sono state abolite e la precedenza attribuita di default alle auto), un pugno chiuso spunta qua e là, senza avambraccio e giallo come un guanto di Jacovitti. Il murales che celebra il Sol dell’avvenire sull’ex Ministero dell’economia della DDR si specchia sul Memorial della rivolta del giugno del 1953 ma il rapporto orario lavoro/salario è rimasto inversamente proporzionale pure se la pubblicità dell’attuale Ministero delle finanze invita ad “assumersi le responsabilità” mentre il popolo di TikTok non farà la coda obbligata per il pane ma affamata dal FOMO si mette volontariamente in attesa per due ore e mezza al baracchino di Mustafà per un kebab come a Milano in viale Espinasse per riempire una borsa di abiti usati senza pensare che l’unica cosa certa è che ha acquistato una borsa che non voleva a 18 euro. Se concedo una facciata del mio palazzo museale previa selezione, a te artista, il tuo murales è un’espressione di libertà? E lo è uno spazio sul muro in cambio di ogni diritto?


Il bacio tra Honecker e Breznev a guardarlo da vicino rivela una divisione, cosa celebrano allora le coppie di ogni genere che si baciano in posa per una foto ricordo? Solo la negazione della negazione rivela un’imprevista possibilità,
è il murales bianco in attesa, più di quella che chiamavano la striscia della morte è la soglia non celebrata dove guardare, il portale magico, la finestra affacciata sul tempo deformato, non c’è prima né dopo, né est né ovest – dal grande calderone urbano resuscitano spettri, ragazzine con le orecchie da elfo, altre con i capelli rosa da maschietto, le cuffione in testa, la felpa nera su calzoni scozzesi, Lucignolo ha la faccia del bravo ragazzo da college poi si rotola, strafatto, col suo compare sul sedile in testa al treno della S-Bahn dove non ci sono tornelli d’ingresso accanto a un’imperturbabile filippina che tornerà dal lavoro, alla fermata di Warschauer quattro pirati sdraiati alla fine della passerella per l’interscambio con la U-Bahn ridono in faccia ai passeggeri in transito, uno ha sulla maglietta disegnato un tuffatore bianco a testa in giù che pare mirare al collo della bottiglia che tiene in mano, tutto quel falso movimento per andare dove, Berlino? – una soglia mentale, una dimensione intermedia dove il tempo è deformato e più che sentirsi né di qua né di là si è nello stesso istante qui e là, forse per questo fa così ridere chi si limita a osservare, dai margini, spettatore e attore al contempo di un esperimento spiazzante dove il tasto della barra spaziatrice in HTML non restituisce il vuoto desiderato da riempire: solo l’ennesima onda da surfare su un muro qualsiasi illudendosi di rivestire la mente con più luce e amore, perché sia quella perfetta.

Da che parte guarda l’angelo sulla Colonna della Vittoria mi chiedo mentre torno ancora ad Alexander Platz a mangiare il mio pretzel sulla panchina con vista sulla Fernsehturm, dove quattordici anni fa, ricordo, sopravviveva un manipolo di crestuti sbrindellati poco nella parte, in posa birretta in mano per le foto ricordo ma non aggressivi come i centurioni al Colosseo (se si accorgevano che li zumavi col tele, i selfies col telefono erano il futuro, al massimo si avvicinavano a chiedere qualche moneta, più facile ritrovarsi con l’indice alzato contro). Probabilmente si sono esauriti per ragioni anagrafiche o a una certa si sono ritirati come Christiane F. nelle campagne dello Schleswig-Holstein dove, se la giornata è buona, li puoi ancora vedere dall’alto della torre a farsi di birra e Jagermeister in spiaggia con le infradito e il costume della Billabong. Sotto ci vedo invece ragazzini omologati in total black che non sanno nemmeno cosa sia la dark wave anche se hanno la stessa aria annoiata di ogni epoca perché a quell’età la vita ti appare infinita e la morte una cosa così remota che inconsciamente, non sapendola, anche se hai giocato a “Age of Empire” e incrociato lui in marmo bianco centinaia di volte seduto su un globo venendo giù sulla Unter der Linden, fai tua la famosa frase di Humboldt, e lo sai che la vita è una condizione di noia alla quale si sfugge solo in un modo. Incuriosito più dai turisti che si calano nella fontana per le foto da postare su Instagram, divertiti perché dietro il bordo c’è uno scalino sul quale appoggiarsi mentre si sorride affacciati dando l’illusione d’essere immersi nell’acqua.

Guarda verso Berlino come l’Angelus Novus di Benjamin guarda alle macerie del passato mentre la tempesta del progresso lo spinge dal paradiso verso il futuro al quale volge le spalle.

Il cuscino nella camera d’albergo sul Landwehrkanal è grande due volte il mio di casa, ma poi è mollo. Tocca ripiegarlo per provare a prendere sonno. O restare a fissare il muro di fronte. Fino a sognare di un luogo chiamato Berlino.

Tutte le fotografie sono di Gabriele Nava. Qui, il suo video

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