Sono passati quarantacinque anni e non sono sicuro di ricordarmi bene, anche perché allora non sapevo di stare vivendo un momento che da vecchio avrei dovuto in qualche modo celebrare. Però credo che nel tardo pomeriggio di martedì 4 aprile 1978 io fossi uno di quei ragazzini che guardarono la prima puntata di Atlas Ufo Robot.
Ne sono abbastanza sicuro perché quello era uno degli orari in cui mi era consentito guardare la televisione e soprattutto era un orario in cui toccava a me scegliere il programma da vedere. A dire la verità non ero io che sceglievo – credo avessimo ancora la televisione in bianco e nero con la manopola per l’audio, quella della sintonia e i bottoni per cambiare canale, anche se c’era poco da cambiare – erano i miei genitori che sceglievano e forse è eufemistico anche usare questo verbo, visto che l’unica scelta era tra accendere e spegnere l’apparecchio; era la Rai che decideva cosa avremmo guardato.
Comunque sia, quello era un orario in cui la televisione era in qualche modo dedicata a me, dopo tornava ai miei genitori. Alle otto c’era il telegiornale, che in quei giorni particolari i miei, come tutti gli italiani, guardavano con attonita apprensione: era stato rapito Aldo Moro e il timore che sarebbe stato ucciso era evidente a tutti. Era una sorta di tempo sospeso, in cui si aspettava una notizia che pure non si voleva arrivasse. Poi c’era il programma della sera, di cui vedevo solo l’inizio prima di andare a letto.
Quel cartone animato – che subito chiamammo Goldrake, dal nome del suo protagonista – era diverso da tutti i cartoni che avevamo visto fino ad allora. Completamente diverso. Non ricordo davvero che impressione mi fece quella sera, ma certamente già nei giorni successivi, quando giocavamo durante la ricreazione con i miei compagni di scuola, divenne normale fingere di attaccarci a colpi di alabarda spaziale.
Certo Goldrake fu anche un fortunato fenomeno commerciale, che venne usato per venderci tanti prodotti, ma credo che ricordiamo ancora quella storia, e le altre che sono seguite in quegli anni, perché finalmente anche noi avevamo un’epica. Goldrake, Mazinga, Jeeg, erano i nostri Achille e Odisseo.
Il motivo per cui noi abbiamo amato quelle storie – e le ricordiamo con nostalgia – è che erano costruite esattamente con gli stessi elementi della grande epica popolare della Grecia antica. Non fatevi ingannare da quello che sarebbe successo dopo, da quello che vi hanno fatto studiare a scuola: le storie degli eroi, di cui noi conosciamo in forma completa solo l’Iliade e l’Odissea, erano ai tempi degli antichi greci racconti popolari, che gli aedi cantavano nelle piazze, durante le feste, erano storie per il popolo. Mica roba da eruditi filologi.
E chi le ascoltava sapeva benissimo cosa sarebbe successo, chi sarebbe morto e chi sopravvissuto. Così come noi sapevamo benissimo che Goldrake avrebbe vinto l’ennesimo quel duello, anche se il suo nemico sembrava invincibile, sembrava il più forte contro cui avesse mai dovuto combattere. Ogni episodio era costruito allo stesso modo, perché l’epica ha bisogno della ripetizione, ma anche nella ripetizione, anche in una serie di episodi che sembrano tutti uguali, succedono delle cose e si sviluppa una storia. La vicenda raccontata in Atlas Ufo Robot, che a noi allora parve lunghissima, durò relativamente poco – sono in tutto 74 episodi – e si conclude con la sconfitta di Vega e il ritorno di Actarus e Maria sul loro pianeta. E così un ciclo si chiude e se ne apre un altro, così come Goldrake era il seguito de Il grande Mazinga e questo a sua volta di Mazinga Z, che invece noi vedemmo in ordine inverso da come era stata concepita la trilogia.
E poi c’è il gusto del fantastico: è lo stesso dell’epica classica. I nemici di Goldrake e in genere i “cattivi” di queste storie sono personaggi a loro modo affascinanti, creature strane, come quelle che incontra Odisseo nel suo lungo viaggio di ritorno a Itaca. E poi i conflitti legati alla paternità e alla patria, ossia al luogo in cui si è nati e per cui si è disposti a morire – anche se Actarus è disposto a morire anche per una patria, la terra, che non è la sua – sono altri temi che questa nostra epica dei robot riprende in pieno da quella degli eroi di Omero.
Manca in quelle prime serie che arrivarono in Italia le pulsioni sessuali che pure erano parte importante dell’epica classica. Non c’erano Elena e Calipso, non c’era Circe, c’erano solo vergini guerriere, tendenzialmente androgine, e probabilmente questo piacque ai funzionari Rai che decisero di trasmettere quei cartoni animati. Ma a placare gli ardori di noi adolescenti sarebbero arrivate altre serie, come L’imbattibile Daitarn 3, non a caso trasmesse sulle nascenti televisioni commerciali, con le splendide Beauty e Reika. Anche di questo si nutre l’epica.
Ma c’era in quella nostra epica dall’impianto così classico qualcosa che invece era solo nostro. Quei terribili conflitti di robot, quegli incredibili duelli del cielo, si concludevano praticamente sempre con una grande esplosione, raffigurata spesso come un fungo atomico. E non per caso quell’epica è nata nell’unico paese del mondo che aveva visto e subito la distruzione delle armi nucleari. E anche se le storie erano sempre le stesse, e lo stesso era il modo di raccontarle, tutto era cambiato, perché gli uomini erano riusciti a costruire un’arma capace di distruggere l’intero pianeta e la stessa umanità. E niente quindi sarebbe più stato come prima.
Nella foto di apertura, anfora con disegni dell’Iliade, circa 540-520 B.C.
- Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni). Anything Goes è anche uno spettacolo teatrale. Per tenersi informati, qui