Nella prima mattina del 13 agosto 1961 gli abitanti di Berlino, a Est e a Ovest, si trovarono di fronte a una terribile sorpresa. Era domenica e i pochi che erano nei pressi della Porta di Brandeburgo la trovarono sbarrata da cavalli di frisia, da militari, autoblindo e altri mezzi dell’esercito della Repubblica democratica tedesca (RDT), quella comunista. Lo stesso scenario si ripeteva in altre vie d’accesso ai due settori che fino alla sera prima erano aperte. Nessuno poteva più passare dalla zona Est a quella occidentale e viceversa.
Quel giorno ero in viaggio per Monaco di Baviera e da quella città la mattina dopo avrei preso l’aereo per Berlino Ovest dove mi attendevano alcuni amici tedeschi. Li avevo conosciuti pochi anni prima per uno scambio tra allievi di scuole superiori e con Joachim avevamo continuato a vederci anche durante l’università, ospiti delle nostre rispettive famiglie.
Era la prima volta che salivo in aereo, un vecchio e rumoroso quadrimotore DC 4 a elica. Il biglietto era molto più a buon mercato rispetto al treno che inoltre attraversava una parte della Germania Est con gli sportelli dei vagoni sigillati e i ripetuti controlli dei “vopos” comunisti taciturni e sgarbati. Durante il viaggio avevo saputo che c’era tensione tra Est e Ovest.
All’aeroporto di Tempelhof, stile Bauhaus, venni accolto da Joachim e dal padre con la sua auto. Per andare a casa facemmo un giro più lungo per vedere cosa sta accadendo, mi dissero. Ci fermammo a un paio di centinaia di metri dalla Porta di Brandeburgo; più avanti non si poteva proseguire perché l’Unter der Linden, il famoso viale dei tigli, era bloccato da auto mal parcheggiate e da mezzi militari americani. Ci avvicinammo a piedi il più vicino possibile alla Porta e vidi cosa stava accadendo.
L’accesso alla Porta che divideva i due settori era stato chiuso dalla parte orientale da cavalli di frisia sormontati dal filo spinato; degli operai innalzavano un muro con mattoni e cemento, sorvegliati da militari e autoblindo della RDT. Nessuno da quella parte poteva uscire a Ovest e vi potevano passare soltanto i lavoratori pendolari dell’Est che rientravano a casa. Un enorme cartello diceva: Wir bauen die antifashistische Shutzwall, costruiamo una barriera antifascista. In realtà la chiusura era il mezzo per bloccare l’esodo dei tedeschi verso Ovest. Dal 1949 al 1961 circa tre milioni e mezzo se n’erano andati.
La prima frase che pronunciai fu scoppierà la guerra e nel frattempo pensavo di farmi riportare all’aeroporto per rientrare in Italia. Furono solo pochi minuti di panico e decisi di restare: la curiosità e un interesse politico ancora confuso presero il sopravvento.
Accanto a me una signora piangeva e compresi le parole come farò a incontrarmi con mia sorella? Le chiesi dove fosse la sorella. Me la indicò tra un gruppo di persone al di là della porta che agitava entrambe le braccia. Un po’ più in là sul tetto di un furgoncino un uomo col binocolo cercava di individuare qualcuno, forse un parente al di là del nascente muro. Un altro, su una scala a forbice faceva dei segnali con una grossa torcia elettrica, forse usando l’alfabeto morse.
Un giovanotto chiedeva a un poliziotto della zona occidentale cosa poteva fare. Viveva a Est ma lavorava in un bar a Ovest. L’agente gli consigliò di non oltrepassare la barriera e di rivolgersi all’ufficio che si occupava dei rapporti tra le due Germanie. Gli avrebbero procurato un posto dove dormire e nuovi documenti. Si allontanò dicendo a casa ho i miei genitori, la mia fidanzata. Si allontanò con la testa fra le mani, forse piangeva. Ricordo la disperazione di tanta altra gente tra pianti, invettive e l’impotenza di fare qualcosa di fronte a quella triste sorpresa.
Salutai la signora con cui avevo parlato che alla fine sorridendo mi disse die Mauer, nicht der Mauer. Aveva corretto un mio errore di grammatica perché avevo pronunciato la parola Muro al maschile mentre era femminile.
Nel pomeriggio con Joachim e altri amici decidemmo di andare in bicicletta per Berlino rasentando la zona orientale. Venivamo superati da mezzi militari americani, e auto della polizia tedesche. Ci fermammo nella Alexanderplatz dove trovammo lo stesso scenario della porta di Brandeburgo. Ma lì i berlinesi dei due settori erano più vicini alle barriere e potevano parlarsi, alcuni addirittura si lanciavano delle palline di carta bianca su cui avevano scritto qualcosa. Lo stesso ai passaggi dello Zoo e al Chekpoint Charlie sulla Friedrichstrasse. La farmacia d’angolo che aveva un’entrata ad Est e l’altra ad Ovest era chiusa. Mi ero sempre chiesto come facessero all’interno a separare la clientela “comunista” da quella “capitalista”. Forse c’era già un muro divisorio.
Decisi di andare alla Bernauerstrasse, un posto della città che l’anno prima mi aveva molto incuriosito. Si trattava di una strada lunga e non molto larga tagliata da una striscia bianca che separava i due settori. Durante quella visita, a parte la striscia, non c’erano altre immagini della separazione: donne che uscivano dai portoni dell’Est per andare a fare compere nei negozi di fronte a Ovest; uomini che passavano al bar dell’Est perché la birra era a buon mercato, altri che facevano il percorso in senso opposto per bere un caffè occidentale più caro ma più buono. E poi tanti bambini che per strada giocavano a pallone o si rincorrevano ignorando la striscia.
Quando vi sono tornato, la linea bianca era sormontata dai cavalli di frisia e ai due rispettivi lati stazionavano poliziotti. Ho guardato in su e le famiglie dei rispettivi settori, allarmate, si parlavano dalle finestre e i bambini con i volti tristi si salutavano. Quel giorno non potevano giocare insieme e chissà quando avrebbero potuto farlo di nuovo, se non 28 anni dopo, il 9 novembre del 1989, quando il Muro cadde. Giorni dopo quella mia visita i portoni e le finestre della parte orientale furono murati.
La sera andammo tutti nella Kurfürstendamm, la strada più nota di Berlino Ovest, piena di luci, di negozi, di ritrovi, di traffico, con tanti bar, pizzerie italiane e gente allegra. Volevamo dimenticare lo spettacolo cui avevamo assistito ore prima.
Quel lontano 14 agosto chiarì le mie confuse idee sul comunismo di oltrecortina. Assistere a quell’evento incise sulla formazione del mio futuro. L’Occidente aveva tantissimi difetti, ma mi permetteva di pensare, parlare, leggere liberamente; di andare all’estero senza problemi e di fare confronti.
Il giorno del “crollo” del Muro ero a Milano nella redazione esteri del Corriere della Sera. Tra le varie notizie da seguire c’era anche quella di Berlino Est con la manifestazione di giovani contro la quale la polizia del regime stranamente non era intervenuta. Il nostro corrispondente da Bonn ci aveva mandato un articolo di routine e infatti non ci aspettavamo niente di nuovo.
Ma alle 8 di sera arrivò un flash dell’Ansa che annunciava Berlino, aperta una falla nel muro. L’aveva inviata il corrispondente Riccardo Ehrmann, il quale nel corso di una conferenza stampa tenuta dal portavoce della RDT Gunther Shabowski, che accennava alla possibilità di una apertura dei varchi verso Ovest, lo incalzò chiedendo wann? (quando?). Shabowski rispose istintivamente sofort (subito), senza contattare il suo governo. Il giornalista corse a un telefono (i cellulari non esistevano ancora) e chiamò la sede dell’Ansa di Roma. La notizia si diffuse in tutto il mondo: la Televisione della Germania Ovest, vista anche a Est, la trasmise aggiungendo che i cancelli erano stati aperti. Non era vero ma molti berlinesi si riversarono verso le uscite costringendo i “vopos” ad aprire i cancelli. Nel frattempo giovani dei due settori riuscirono ad arrampicarsi sul muro. Così una fiumana di gente a piedi e sulle inquinanti Trabant (auto economiche della RDT) si riversò verso le luci e la libertà dell’Occidente.
In redazione la prima cosa che feci fu quella di chiamare il nostro corrispondente che per fortuna trovai in un ristorante di Bonn. Gli dissi di riscrivere il pezzo e di partire subito per Berlino.
Avrei voluto essere sul posto in quel momento per assistere a quello spettacolo paragonabile alla improvvisa apertura di un enorme lager. Avrei voluto osservare, vicino al maestro e violoncellista russo Leopold Rostropovich che davanti al Muro aveva improvvisato un assolo col suo antico Stradivari. Fu la risposta al governo sovietico che dieci anni prima gli aveva tolto la cittadinanza.
Nella foto di apertura, la costruzione del muro