Cinque film in vent’anni, premiati dal pubblico – Il vento fa il suo giro, che fece conoscere Giorgio Diritti nel 2005, stette fisso per mesi al cinema Mexico di Milano – e lodati dalla critica: il ritratto del pittore Ligabue (Volevo nascondermi) regalò a Elio Germano un Orso d’argento a Berlino nel 2020.
Soprattutto ne L’uomo che verrà (2009), il film dedicato alla strage di Marzabotto, mi è piaciuto Diritti e il suo modo cauto di narrare, spesso legato a un “girare” (come il vento) semplice e pregnante, fatto di intensi e spiccioli quadri, che attendono lo svelarsi di un altro tempo, il tempo della Storia che può calare come una mannaia sui suoi sconosciuti comprimari. Avatiano e olmiano di nascita e prima esperienza, il regista bolognese amplia lo sguardo e chiede oggi maggior forza alla sua capacità narrativa con questo Lubo.
Tre ore, una vicenda famigliare scavata nel buio dell’Europa alla vigilia di una guerra mondiale. Protagonista suo malgrado Lubo Moser, nomade e artista di strada: nel 1939 si vede privato del lavoro e arruolato con la forza nell’esercito svizzero che teme l’invasione. Il film diventa la lunga e disperante avventura di Lubo per ricomporre una famiglia. E però il percorso, che arriva fino alla seconda metà del Novecento, trascorrendo dal mondo dilaniato del conflitto alle miserie del tempo di pace, è minato alla base. Di mezzo ci sta un cadavere, quello di un losco uomo d’affari che nel 1939 voleva passare il confine con i gioielli trafugati alle famiglie ebree; di lui Lubo ha preso la vita e il posto…
Aiuta molto Diritti, nei panni del protagonista, Franz Rogowski, paziente e indomito, misterioso e oscuro nel vivere il suo dolore – era il villain nazista in Freaks Out di Mainetti, e si vedrà in Passages di Sachs. Lo applaudo qui anche durante qualche caduta di tensione della storia e in un paio di episodi dal sapore dolciastro – è un difetto noto di Diritti e non credo che ciò spiaccia soltanto agli spettatori cinici – di qualche scena zingaresca.