In epoca storica gli antichi Greci usavano l’aggettivo onomatopeico βάρβαρος – barbaros – per indicare i popoli che non parlavano greco, ossia tutti gli altri uomini rispetto a loro. La ripetizione della sillaba bar indicava il fatto che quei popoli non solo non parlavano il greco, ma articolavano lingue poco comprensibili, come le prime parole di un neonato o il faticoso esprimersi di un balbuziente o addirittura come i versi degli animali. E non a caso Erodoto per descrivere la lingua degli Etiopi usa la stessa parola con cui si indicava lo strepito dei pipistrelli.
Non era sempre stato così: Omero conosceva questa parola, ma – come fa notare anche Tucidide – non la usa per riferirsi ai Troiani, gli “altri” per eccellenza, quelli contro cui si era costruita la stessa identità greca. E Plutarco, riferendosi evidentemente a tradizioni arcaiche, parla di parole barbariche, ossia senza senso, che nascondevano un significato misterioso e sacro. Ma già per Sofocle un popolo che non parla un idioma intelligibile è “senza lingua”: infatti è tale l’importanza che assume il linguaggio che l’uomo che lo possiede si sente superiore agli altri. Da qui nasce la distinzione, a cui si associa con il tempo un rilievo razzista, tra chi è greco – e quindi parla greco – e chi non lo è. E barbaro diventa sinonimo di nemico.
Naturalmente non mancano gli autori che fanno notare che la cultura dei barbari non è meno sviluppata, solo perché quegli uomini non parlano greco e che anzi ci sono in quei popoli artisti, poeti, filosofi: Erodoto sarà chiamato “amante dei barbari”, ma certo per l’opinione comune, specialmente nel tempo delle guerre persiane, i barbari sono gli “altri”, i nemici, quelli che vorrebbero sottomettere il mondo greco, ma che vengono ricacciati, nonostante la sproporzione delle forze in campo, al di là del mare.
Per un curioso paradosso i “barbari” Romani latinizzarono la parola greca e la fecero loro, trasmettendola poi nella nostra lingua. Pur avendo poca stima dei greci loro contemporanei, i Romani si considerarono eredi della civiltà greca, tanto da nominare barbari tutti i popoli non educati dalla civiltà ellenistica, ormai diventata greco-romana.
Mentre l’impero si allargava sempre di più – fino a comprendere molti di quei popoli che i Greci consideravano barbari – così vennero chiamati quei popoli che rimanevano al di fuori dei confini, che non “godevano” i benefici della civiltà. E barbaro divenne sempre più sinonimo non solo di straniero, ma anche di rozzo, perché questi popoli non rispettavano leggi e istituzioni civili e non riconoscevano la religione tradizionale.
Sto pensando a questa parola da parecchio tempo, guardando le immagini delle donne e degli uomini che premono ai nostri confini, che cercano di entrare in Europa, mentre noi alziamo mura, stendiamo chilometri di filo spinato, scaviamo fossati. Sono donne e uomini che parlano lingue diverse dalle nostre, incomprensibili alle nostre orecchie, sono donne e uomini che consideriamo barbari. E diciamo di difendere la nostra civiltà, che non riconosce neppure le più elementari regole di solidarietà. Ho pensato a questa parola perché credo che ormai possiamo sperare nell’arrivo di una nuova ondata di barbari che spazzi via questo impero incancrenito e malato. Come fecero quelli che invasero l’impero romano, prenderanno quel pochissimo di buono che c’è ancora nella nostra civiltà, impareranno la nostra lingua, leggeranno i nostri poeti – e magari da lì nascerà una nuova letteratura volgare – e comincerà spero qualcosa di buono, anche per i nostri figli e per i nostri nipoti, che capiranno che i barbari non sono così terribili come noi li abbiamo descritti fino a ora.
Ormai, come il Romolo Augustolo raccontato da Dürrenmatt, possiamo solo arrenderci.
Nella foto grande, La invasión de los bárbaros di Ulpiano Checa
- Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni). Anything Goes è anche uno spettacolo teatrale. Per tenersi informati, qui