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Allonsanfàn
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Elisa Claps e Yara. Due modi di raccontare un crimine

Salvo qualche quasi inevitabile banalità buttata lì come un grano di saggezza – per esempio, quella sulle linee d’ombra che prima o poi a tutti tocca attraversare – il serial di Sky sul caso di Elisa Claps (Dove nessuno guarda), nato sullo sviluppo di un fortunato podcast, è svolto in modo impeccabile.

Le quattro puntate sono solide e chiare nella ricostruzione e si concedono a un montaggio efficace di scoop e fatti noti, senza bisogno di farlocche ricostruzioni al ralenti da docu fiction alla Amore criminale o del racconto fibrillante in voga tra le Iene (anche se uno dei due giornalisti che firma il programma è una ex Iena).

Lunghe interviste e filmati inediti, girati per l’inchiesta e non prelevati nelle cantine del servizio pubblico o dagli archivi di Chi l’ha visto?, sono al servizio della verità di un delitto coperto da ambigui preti e maggiorenti di provincia e dagli sbagli di polizia e procura – chi segue le indagini proprio non capisce un cavolo e parla a macchinetta ai genitori affranti di allontanamento volontario della ragazza – il che relega per decenni il cadavere di Elisa Claps, uccisa nel 1993, a decomporsi nelle soffitte di una chiesa di Potenza, povero corpo coperto alla bell’e meglio con tegole di tetto.

La pietà per una ragazzina gentile, e l’empatia per una famiglia battagliera ma rovinata da anni di dolore, si contrappone alla rabbia suscitata dai filmati dove domina la figura del villain. Resterà in mente a chi guarda da casa, comodo sul divano, l’incerto camminare da pericoloso orso di un serial killer sovrappeso, Danilo Restivo, infine catturato a Bournemouth in Inghilterra per un altro delitto (simile). Restivo risulta essere uno stalker schizofrenico con una carriera di stranezze, violenze e feticismo per i capelli, che gli avevano meritato fin da piccolo il soprannome di Il parrucchiere. Elisa Claps era stata l’unica ad ascoltarlo con pazienza, quando questo ragazzone emarginato e problematico disturbava le femmine di Perugia…

Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps è una produzione Sky Italia e Sky TG24 realizzata da Chora Media, con Pablo Trincia (l’autore del podcast), volto e voce del racconto, e regia di Riccardo Spagnoli che firma insieme a lui la scrittura (F.C.).


Intanto in libreria…
Accade nel mondo e in modo massiccio in Italia: la cronaca nera si è sbiadita e colorata uscendo dalla scrittura giornalistica per approdare ai territori dello spettacolo e dell’arte. Anzi: è diventata un genere narrativo. Pago dazio, se va bene, agli antichi numi Capote e Buzzati, mentre apro questo voluminoso Yara. Il true crime (Bompiani), di Giuseppe Genna.

Scrittore noir e tout court, Genna tratta da buon ultimo il caso Gambirasio che, secondo lui, fa da spartiacque nella vita della nostra nazione quanto a “ricezione mediatica della cronaca”. Da ciò auto-incoraggiatosi, si lancia e strafa, in preda a una febbrile presunzione da narratore alfa che sniffa da par suo l’aria avvelenata di Brembate e paesi limitrofi, dei cui nomi barbarici snocciola di continuo la litania.

Le pagine di Genna, anche tipograficamente, segnalano l’eccezionalità della storia (o dell’autore?), tra un primo capitolo in corsivo simile alle intro trash dei best seller di paura USA e visibilmente dedicato a se stesso (in quanto serial writer?) e parole spesso scritte a tutte maiuscole (per darci l’idea dell’urlo muto che agghiaccia il sensitivo scrittore?).

Mentre ricostruisce l’ultimo giorno di vita di Yara Gambirasio, il racconto prende subito facile velocità nell’ansia tachicardica di tante brevi frasette e troppi martellanti a capo di netta provenienza ellroyana – a proposito: ma quanti credono che, nel bene e nel male, Ellroy sia imitabile? Qui, nel suo ritmato puzzle, Genna incastra cronaca spicciola, fiacchi aforismi che si presumono lancinanti (“non tutti gli angeli sono custodi”, “…il colpevole sempre è l’ultimo testimone”) e domande retoriche dolciastre che paiono tratte da una poesia crepuscolare: “Vai, piccola anima. Di cosa sei esperta? Di nulla” (pag. 29). Ovviamente: in un paio di capitoli, dove sarà richiesta la mimesi di una più burrascosa confusione tra fatti criminali e personali emozioni, Genna farà invece il contrario, impastando il classico polpettone senza punti, tutto virgole, da farci trangugiare in pagine dense di piombo.

Il difetto letterario – sottolineo letterario perché di letteratura sto parlando – di Yara si può trovare anche in un singolo paragrafo, per esempio a pag. 201: “Trascendiamo il maschio e la femmina: avremo pace. La violenza ci tornerà in altra specie? Usciamo dall’oscuro, dall’arcaico. Diminuiamo l’odio e verifichiamo se la morte cala”. Si cade in picchiata da un tono alto, oracolare, quasi biblico, nell’abisso di un colloquiale buon senso.

Volete un tragico Shakespeare che fa la ronda in Lombardia? A pag. 203: “Bergamo alta, il gelo ottobrino spinge l’estuario dell’autunno verso i rigori dell’inverno. L’inverno è scontento. Il nostro disappunto è…”. In fondo al brano, però, il Kitsch citazionista stramazza di nuovo a terra, confondendosi con un giornalistese da Gazzetta dello Sport: “Siamo a un cromosoma dalla verità”.

Verrebbe da ridere percorrendo questo assolo dissennato ed egotico pure in absentia (pag. 204: “Quartiere Redona. Parco Turani. Non c’è nessuno qui. Nemmeno io”), e amen se il mio venisse preso per il riso sprezzante del filisteo di fronte al detective invasato di Letteratura, il quale si trincera dietro una “Y lettera scarlatta” (pag. 276) brandita a mo’ di croce mentre si agita anzi precipita come il Vil Coyote nello psicoanalistese tra le figure parentali della storia (“L’ignoto crolla sfinito in sua madre. Stiamo crollando sfiniti nella madre”, pag. 250). Sarebbe tutto ridicolo e basta, dicevo, se Genna non stesse trattando il true crime – come recita stavolta in un angloamericano tecnico burocratico il sottotitolo del libro – cioè il caso di una bambina massacrata. Per fortuna, se ne ricorda nei farfugliamenti danteschi tra i titoli di coda del suo pastiche: “Nessun canto può restituire lei” (corsivo suo, pag. 397). Ma no? (L.M.)

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