«Il giornalismo è fatto di pazienza, dedizione, costanza. Per essere credibili bisogna andare là dove i fatti accadono, per vedere, capire, testimoniare. Non può farlo chi si limita a osservare il mondo dall’alto, chi resta distante e distaccato, ma soltanto chi è pronto a calarsi anche nelle realtà più crude, chi si immerge nelle storie correndo rischi».
È un giornalismo vero (sempre più raro) e, insieme, un viaggio negli avvenimenti che hanno costruito la memoria degli ultimi cinquant’anni quello raccontato da Mario Calabresi nel libro A occhi aperti (Mondadori) che raccoglie le storie di alcuni tra i più importanti fotoreporter di tutto il mondo.
Dai pensieri e dai lavori di Steve McCurry, Susan Meiselas, Josef Koudelka, Don McCullin, Elliott Erwitt, Paul Fusco, Alex Webb, Gabriele Basilico, Abbas, Paolo Pellegrin, Letizia Battaglia, Sebastião Salgado emergono «i momenti in cui la Storia si è fermata in una foto» scrive in copertina Calabresi.
E proprio dalla foto di copertina parte la sua presentazione al Teatro Parenti di Milano.
San Isidro, California, 1979. Alex Webb, fotografo americano, scatta un’immagine (foto in alto) a un piccolo gruppo di migranti messicani bloccati mentre tentano di entrare negli Stati Uniti. Anni dopo dirà che quella è la foto “perfetta”.
«L’ho vista per la prima volta a Londra» spiega Calabresi, «dove mi aveva mandato l’agenzia Ansa, per la quale allora lavoravo. Era esposta in una mostra che ero andato a visitare poco prima di rientrare in Italia. E da lì ho iniziato a interrogarmi: cosa stava succedendo durante quello scatto nei sobborghi presso San Diego, ultimo avamposto americano prima del confine con il Messico? Cosa era accaduto prima, cosa sarebbe successo poi?».
Calabresi incontra Webb molto tempo dopo, proprio a Londra. Lo intervista. Gli dice che quell’immagine lo aveva folgorato. E il fotografo gli racconta di un lavoro lungo e meticoloso «in un’area dove oggi c’è un muro altissimo e filo spinato e telecamere a dividere Stati Uniti e Messico. Dove c’è gente che muore. Dove ci sono fiumi di armi che dagli Usa entrano in Messico, e di droga che dal Messico vanno negli Stati Uniti».
Ma allora era diverso. Allora c’era solo un muretto tanto basso da essere ricoperto di fiori. Facile da scavalcare. Quel giorno Webb era passato con i migranti dal Messico agli Usa quattro volte: sta per rientrare a casa quando vede un piccolo gruppo di messicani e scatta. «Esistono momenti» dirà a Calabresi «il cui il dio della fotografia decide di farti un regalo».
Nella foto i migranti bloccati sono pensierosi, rassegnati, ma non sono disperati. Sanno che, rimandati di là dal muretto, il giorno dopo avrebbero potuto riprovarci. «Non bisogna pensare che la fotografia sia un colpo di fortuna» dice Calabresi. «La fotografia è esserci. Se Webb si è trovato nel posto giusto al momento giusto è stato perché era lì da giorni». Di quell’incontro ricorda una frase che è anche insegnamento: «Il fotogiornalismo, come il giornalismo, è metodo e deve essere fatto con mente sgombra e libera. Non bisogna cercare ciò che hai già nella tua testa. Ma devi essere sempre aperto alla possibilità di cogliere una realtà inaspettata».
Regola messa in atto dai tanti che Calabresi racconta nel suo libro: tra loro Josef Koudelka, che ha documentato la Primavera di Praga del 1968, Don McCullin, testimone delle guerre in Vietnam e nell’Irlanda del Nord, Gabriele Basilico, che ha immortalato una Beirut distrutta da anni di guerra civile. E ancora Sebastião Salgado con l’umanità dolente in fuga dai massacri ruandesi e gli schiavi delle miniere a cielo aperto, Paolo Pellegrin con le sue immagini, volutamente un po’ sfocate, dei rifugiati palestinesi, Letizia Battaglia a documentare la mafia in Sicilia.
Tra le storie, quella di Steve Mc Curry: «Nel 1983 aveva 33 anni e lavorava per il National Geographic. Decide di fare un servizio sulla stagione dei monsoni: le sue immagini in India tanto perfette nascono da coraggio, fatica, sacrificio». Sullo schermo del teatro Parenti appare la foto (qui sotto) del sarto che, immerso completamente nel fango, avanza tenendo in spalla una macchina da cucire arrugginita.
Racconterà McCurry al giornalista italiano: «Per farcela dovevo entrare in quell’acqua lurida, coperta di melma, piena di rifiuti e di animali morti: per completare il mio progetto dovevo accettare tutti i rischi, anche di ammalarmi e di morire. Le belle foto sono in quell’acqua sporca, non puoi proteggerti, stare ai margini, un po’ fuori e un po’ dentro: se la gente è sommersa fino al collo devi essere dentro con loro, non c’è separazione. Solo se sei disposto a correre il rischio, solo se sei completamente convinto, allora sei pronto».
Per ritrarre il sarto nel fango McCurry arriverà ad avere venti sanguisughe addosso. Gli sono rimaste le cicatrici.
Il libro. Mario Calabresi A occhi aperti (Mondadori)